6. When We Were Young

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"I was so scared to face my fears.
Nobody told me that you'd be here.
And I swear you moved overseas.
That's what you said, when you left me.

You still look like a movie,
You still sound like a song.
My God, this reminds me
Of when we were young".

Quando si perde qualcuno non succede mai tutto in una volta. È un processo graduale, che impiega i suoi tempi e i suoi ritmi, del quale non ci si accorge mai nell'immediato. Comincia dalle piccole cose. A partire da quando si fa qualcosa che non si vede l'ora di raccontare o condividere con quella determinata persona, per poi a malincuore realizzare che si è impossibilitati nel farlo. Ho preferito non portare il conto di tutte le volte che è accaduto qualcosa, nella mia vita, che mi ha fatto immediatamente pensare: "Questo devo assolutamente dirlo a Peter". I primi tempi ci mettevo un po' a capacitarmi del fatto che non fosse possibile. Negli ultimi tempi, invece, restava solo un triste senso di amarezza e nostalgia. Ci sono state tante, ma così tante, situazioni in cui immaginavo l'espressione che avrebbe assunto il suo viso in quella particolare circostanza; in cui me lo figuravo gesticolare e muoversi come solo lui sapeva fare; in cui, anche inconsciamente, assumevo i suoi atteggiamenti, o mi scoprivo a esprimermi come era solito fare lui. Con il passare degli anni ho imparato ad accantonare tutte le piccole caratteristiche che lo contraddistinguevano, ma non c'è stata occasione in cui il mio pensiero non si rivolgeva a lui; anche se si trattava di un dettaglio insignificante o apparentemente inutile, Peter c'era. Perché l'ho sempre tenuto con me. Ci sono certe ferite che non si rimarginano. Mentre alcune si cicatrizzano, e diventano semplicemente un ricordo su pelle di ciò che è stato, altre non si ricuciono con i punti di sutura, ma con un filo sottilissimo, pronte a riaprirsi non appena punzecchiate, come il can che dorme che non va mai stuzzicato. Sono le ferite del cuore, quelle. E sono le più pericolose. Lasciano segni ancor più indelebili delle cicatrici. Ti cambiano e, no, il dolore con il tempo non lenisce. È solo latente. E ora, alla vista della coppietta felice, lo sento tornare in superficie e assalirmi con la potenza di un tornado. Perché, fin quando eravamo distanti, "lontano dagli occhi, lontano dal cuore", ero - bene o male - in grado di gestirla. Adesso no, perché sono qui, lui è qui, stanotte mi ha detto quelle cose, e non importa se era ubriaco o cosciente, ha fatto comunque sì che tornasse tutto a galla, come se non fosse mai affondato. Dovevo prevedere che sarebbe accaduto. Ma il mio tipico "non preoccuparmi mai del futuro e vivere al presente" mi ha impedito di farlo. Sono stesa su un fianco su questo letto a fissare il vuoto da non so quanto. Non ho proferito parola alcuna, non ho versato neanche una lacrima. Sono una statua di sale. Connie e i ragazzi le hanno provate tutte. Mi hanno aspettata svegli. Mi hanno tempestata di domande. Niente. Anche il mio viaggio di ritorno in taxi è stato avvolto dal silenzio, a parte l'esigenza di dover comunicare al conducente l'indirizzo dell'albergo e dove lasciarmi. Tutto qui. Per il resto, sono rimasta sola con me stessa nella mia torre d'avorio assieme ai miei pensieri. Molti dei quali nocivi e devastanti. Notando che non c'era verso di farmi parlare, sono presto andati tutti a letto, distrutti, rimandando la discussione a domani mattina. Fino a ora non ero mai stata capace di spiegarmi quel verso della canzone che ha scritto Peter, in cui diceva che ogni cosa si era ridotta ad apatia, tanto che la mia mancanza lo annientava. Ora, invece, mi appare chiaro come il sole, perché è ciò che sta abbracciando me adesso. L'apatia, l'assenza di pathos, di emozioni. È strana, da provare. Quando la desolazione non dà adito ad altre sensazioni e si trasforma nel vuoto, nel nulla. Ti risucchia e, tra il bianco e il nero che potresti essere, sei grigio, perché non sei né felice né triste; sei indifferente. E non è per niente piacevole. Vorrei piangere, sbraitare, prendere a pugni un cuscino, gridare, liberarmi dal peso che ho sul petto, ma non mi riesce. Allora me ne sto qui, con gli occhi che mi bruciano per il sonno e un lancinante mal di testa e di gola, a fare da spettatrice alla mia vita che va in frantumi, augurandomi - illudendomi - che non mi appartenga, e che sia soltanto un brutto, tremendo, orrendo incubo. Non ho sonno. O meglio, sono esausta, e questa giornata è stata anche abbastanza piena, ma non riesco a chiudere occhio. Connie ronfa beatamente, così come i due piccioncini. Sbuffo e scendo dal materasso, per poi andare a rovistare nella borsa di Connie alla ricerca di quei biscotti alle gocce di cioccolato che ha comprato in aeroporto. Ne sono rimasti solamente tre, accidenti a quei due ingordi. Prendo il pacchetto e, silenziosamente, mi reco nel "salottino" e accendo la Tv, abbassando poi il volume al minimo. Torno in camera per munirmi del plaid che ho adocchiato nell'armadio quando, ieri pomeriggio, Connie vi ha sistemato i suoi vestiti all'interno, e mi vado ad accomodare sul divanetto dinanzi alla televisione. Mi poso la coperta sulle gambe e, sgranocchiando, intanto, uno di quei cookies squisiti, inizio a fare zapping tra i canali. Mi fermo su uno per bambini - che, stranamente, trasmette cartoni animati anche alle cinque del mattino -, quando avvisto un enorme mostro tutto blu a pois lilla affiancato da uno più piccolo, tondo, verde e con un occhio solo.

Celeste - Lasciati trovare [SEQUEL]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora