0.3 Celeste

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"Confess to me every secret moment,
Every stolen promise you believed.
Confess to me all the lies between us,
All the lies between you and me".

Philadelphia; 2015

Nonostante i discorsi di Colin, nel mio cuore non riesco a darmi pace. Da quando ho metaforicamente scoperchiato la scatola dei ricordi, richiuderla è risultato quasi impossibile. E sono un'incredibile masochista, sì, perché ho ricominciato a non dormire, la notte. Osservo il soffitto di questa stanza così impersonale e provo nostalgia della galassia dipinta su quello della mia camera a casa dei miei, o di quello bianco e costellato di macchie d'umidità del dormitorio al college. E non posso fare a meno di chiedermi cosa sia effettivamente andato storto, quale sia stato l'ingranaggio che si è fermato e ha fatto inceppare il meccanismo. È inevitabile addossarmi la colpa di tutto, per di più, perché, se non fosse stato per me, sarebbe andato tutto diversamente. Non faccio altro che ripetermelo. Sono io ad aver rovinato tutto, inutile negarlo oltre. Per tutti questi anni ho continuato a rincitrullirmi con innumerevoli lavaggi del cervello, con il solo intento di autoconvincermi che era destino che andasse così. Ma non è vero. A distanza di anni, dopo un attento esame di coscienza, vien fuori che io sono e sono stata un'egoista. E la cosa peggiore di tutte è che l'ho fatto con cognizione di causa, per ripicca. Sono solo una stronza ferita che, non contenta di aver compreso di non essere stata l'unica dei due a soffrire per la sua partenza, anni addietro, voleva farlo star male almeno la metà di quanto lo era stata lei. Ora, però, onestamente parlando, sono davvero io quella che si è procurata la bruciatura più grave? E mi fa impazzire il fatto che io mi spacci tanto per una persona forte e tutta d'un pezzo, quando invece ce ne sono mille, di pezzi, dentro di me, e graffiano come vetri appuntiti. Non sono altro che una vigliacca orgogliosa e testarda. Perché non l'ho rincorso, quando è uscito da quella porta? Perché non gli sono saltata addosso fino a fargli - a farci - mancare il respiro? Perché non gli ho detto che lo amavo incondizionatamente? Perché sono un'imbecille, ecco perché. Perché dovevo spiegargli come stavano le cose, dirgli che non l'avrei mai abbandonato e che lui mi rendeva felice come nessuno mai. Invece gli ho rinfacciato di non essere stato capace di svelarmi la sua vera identità, quando dentro di me sapevo che doveva aver avuto una buona motivazione per non farlo. Ma, no, l'ho dovuto portare all'esasperazione, fino ad apprendere che quella festa dei miei sedici anni, di cui non ho memoria, aveva portato con sé conseguenze ben più profonde della mia perdita di verginità in uno dei bagni di quel postaccio con Colin. E che è stato proprio il mio bacio con quest'ultimo a far scattare la bomba. È per questi motivi che mi ero capacitata del fatto che fosse semplicemente stato destino. Ma non è stato il destino. Sono stata io che ho distrutto a tal punto quel ragazzo da portarlo a odiarmi. Ci siamo irreversibilmente distrutti a vicenda. Perciò ora mi è lecito domandarmi se sarebbe giusto andare a cercarlo. Colin ha davvero ragione: sono così egoista da piombare di nuovo nella sua vita - che magari si è anche rifatto totalmente - e sconvolgergliela un'ennesima volta? Perché è questo, quello che farei. A che scopo, poi? Perché mai dovrei tornare sui miei passi di punto in bianco? La scusa della mancanza non reggerebbe. Non dopo sei anni. Ma non credo sia per quello. Peter è sempre stato il mio porto sicuro, sin da quando eravamo piccoli. E non lo dico solo perché era più grande di me. Mi ha sempre infuso un senso di protezione che nessun altro è mai stato in grado di infondermi. Avevamo uno di quei legami speciali che a parole non possono essere spiegati: possono solo essere vissuti. E io ho vissuto Peter Poole in tutte le sue accezioni e sfumature, e non ne avrei mai avuto abbastanza. Ma non avevo fatto i conti con il fatto che, forse, sarebbe stato lui, ad averne abbastanza di me. E se questa follia dovesse andare a buon fine? Se dovessi trovarlo, cosa farei? Cosa farebbe? Mi urlerebbe contro? Io griderei ancora più forte? Lo abbraccerei, dopo? E lui? Lui mi scanserebbe? O farebbe addirittura finta di non vedermi, se dovessimo incrociarci? E io? Io reggerei la sua indifferenza? La verità è che se io l'avessi realmente amato come credevo, non l'avrei mai nemmeno presa in considerazione, l'idea di partirmene, o di dirgli quelle cose orribili, tanto per iniziare. Quando ero bambina associavo all'idea di partire qualcosa di mistico, di misterioso e di ignoto, che mi incuriosiva e intrigava ai limiti dello scibile. Quei piccoli viaggi che mamma e papà organizzavano per i fine settimana lunghi erano un vero toccasana, per me, nonostante partire significasse lasciarlo, e lasciarlo implicasse il non vederlo per un certo lasso di tempo. Ma le ricordo bene, quelle interminabili telefonate serali - con il telefono che papà mi concedeva gentilmente in quelle occasioni - solamente per sentirmi dire e per dirgli quelle cose stupide che solo i bambini comprendono, comunicando in un linguaggio in codice indecifrabile da esterni. Come sta Mr. Wippol?, gli domandavo io in continuazione. Sta bene. Per quanto un bruco possa essere felice, lo è. Soltanto che è un po' pallido, ultimamente, mi rispondeva, totalmente privo di tatto. Ma ero una bambina razionale, io, perciò non mi scomponevo più di tanto, e gli intimavo di nutrirlo di più, di dargli più foglie e di giocare con lui, perché sennò si rattristava a stare da solo. Lui mi accontentava, non si opponeva mai, ma mi prometteva sempre che si sarebbe impegnato di più. Seppure fosse di un anno più grande di me, quella più matura sembravo io, tra i due. I ruoli si sono evidentemente invertiti, una volta cresciuti, a quanto pare. Non l'ho cercato per sei anni, Dio santo. E sono così arrogante, da non riuscire ad ammettere nemmeno a me stessa che è sembrato che il tempo non passasse mai. Ogni giorno controllavo ossessivamente il cellulare - soprattutto dopo la mia partenza per la Francia -, sperando e pregando che mi avrebbe cercata, che sarebbe tornato da me e che non mi avrebbe lasciata mai più. Ma sapevo che non sarebbe successo. E forse è stato - è sempre stato - questo il mio problema: sperare nell'impossibile fino a credere che si sarebbe potuto realizzare. Arrivata in Francia ero un automa. Zia Flo non sapeva cosa fare, come prendermi... Lo aveva intuito, naturalmente, che era accaduto qualcosa con Peter, ma non mi ha mai forzata a raccontare qualcosa che io, invece, non me la sentivo di esternare. E forse è stato anche questo il problema: non parlarne con nessuno. Quando una settimana fa mi sono sfogata con lei, e le ho narrato tutto per filo e per segno, ho sentito come un peso sollevarmisi dal petto. Ma ho anche riportato a galla qualcosa che credevo di aver sepolto a metri e metri di profondità. Ma era tutto in superficie. Mi ero solo accuratamente preoccupata di non scavare mai in quella zona. Ero riuscita a distrarmi. A pensare a me stessa, al mio nuovo lavoro - che coincideva incredibilmente con la mia passione, accidenti - e a vivere alla giornata. Avevo conosciuto Evan, che è stato come una boccata d'aria fresca in un giorno afoso... Perché, diamine, se n'è dovuto uscire con quella proposta-non proposta, terrorizzarmi a morte e far sì che scoppiassi con zia Flo? Lo squillo del mio cellulare mi distoglie dai miei pensieri e mi spaventa a morte, facendo sì che abbia uno scatto improvviso e rovesci tutto il caffè contenuto nella tazza sulle lenzuola appena fresche di bucato. Aveva ragione la mamma, quando a casa mi faceva una testa tanta dicendo di non mangiare in altra stanza se non in cucina. Sbuffo e poso il recipiente sul comodino. Almeno non è caduto niente sul PC. Chi l'avrebbe sentito, Evan, altrimenti... Afferro il cellulare dal materasso, rispondo e imposto il vivavoce, riprendendo a fare quello che il flusso dei miei pensieri mi aveva impedito di fare.

Celeste - Lasciati trovare [SEQUEL]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora