0.8 Peter

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"I'm just a broken-hearted man.
I know it makes no sense but
What else can I do? How can I
Move on, when I'm still in love with
You?".

San Francisco; 2013

Era il dodici marzo. E lo ricordo bene perché mancavano esattamente quindici giorni al suo ottavo compleanno, e stavo anche organizzando una sorpresa per rendere il tutto più speciale e memorabile possibile. Ma mai avrei previsto che quello che sarebbe capitato quel giorno avrebbe dato l'avvio al cambiamento del mio modo di vedere Celeste Sullivan per sempre. Eravamo al parco a giocare con degli aquiloni, che ci aveva comprato suo padre quella mattina stessa. Lui era seduto su una panchina, in disparte, a leggere un giornale, infatti, lanciandoci ogni tanto qualche occhiatina per tenerci sotto controllo. Io e lei stavamo correndo, con quella spensieratezza tipica dei bambini, e ridevamo a crepapelle, rincorrendoci a vicenda. A un certo punto le fila degli aquiloni si intrecciarono e imbrigliarono tra loro, originando un'unica inestricabile matassa. Solo dopo realizzai che era la stessa cosa che da quel momento iniziò a fare lei al mio cuore, che si stava legando a lei con talmente tanti nodi intricati, che scioglierli è ancora oggi impossibile, sebbene la stretta del filo si sia allentata. Mentre ancora rideva, divertita, proposi che sarei andato da suo padre a chiedergli una mano, facendo sì che rimanesse sola per qualche secondo a cercare di sbrogliare lei i grovigli - testarda come al solito, niente da fare. Non so se, effettivamente, si trattasse di una sottospecie di maledizione che incombeva su di me o qualcosa di simile, e che si verificava ogni santissima volta la lasciassi sola. Fatto sta che le si avvicinò Benjamin Fraser - un bambino che io detestavo a morte, dai brillanti occhi blu, i capelli scuri e il viso ricoperto di lentiggini, per il quale Celeste aveva visibilmente un debole - e le parlò per qualche minuto. Me ne accorsi soltanto poco prima di arrivare da suo padre, quando mi voltai per vedere se si stesse ancora destreggiando con quegli aquiloni. C'era lui che parlava fitto fitto, con una serietà da far paura, visto e considerato che era un bimbo di soli otto anni. Erano all'ombra della "Grande Quercia", e il vento fresco di quella giornata incredibilmente soleggiata le accarezzava il viso e le faceva svolazzare i capelli scuri tagliati a caschetto e le balze della gonnellina rosa. Lei lo ascoltava attentamente, seguitando però a maneggiare quelle corde con la massima cura. Finché lui non disse qualcosa che le fece cadere il groviglio dalle mani e la fece arrossire in un battibaleno. E Celeste che arrossiva era qualcosa di più unico che raro, ma era uno spettacolo. E stava arrossendo per ciò che aveva detto quello. Io lo soprannominavo "caccola", perché era un nano odioso e fastidioso come le caccole nel naso. Lei mi sgridava sempre e se la prendeva a morte quando lo facevo. Ma per me rimaneva una caccola. Una caccola appiccicosa che le aveva sorriso e le aveva stampato un bacio interminabile su una guancia, lasciandola stupita e imbarazzata, mentre io ero solo fumante di rabbia. Ma insomma, non si doveva minimamente permettere! E, prima ancora che potessi rendermene conto, stavo correndo nella loro direzione, pronto a dare uno spintone a quel piccolo manipolatore. E, prima ancora che potessi accorgermene, lo avevo buttato a terra, e gli stavo tempestando il petto di pugni. Non la devi toccare!, urlavo, come se fossi stato posseduto da chissà quale misteriosa forza oscura. E trovo così ironico constatare quanto sia invece indeterminato il numero dei ragazzi che l'hanno concretamente toccata, quando io non ero lì per impedire che avvenisse. Celeste strillò e incominciò a piangere a dirotto, e suo padre, sbigottito, si alzò immediatamente dalla panchina e accorse. Mi prese per le braccia e mi allontanò da quel Benjamin, che piangeva a sua volta, e che ormai aveva tutto il completo firmato sporco di terra e verde per l'erba. Peter, per l'amor di Dio, che diamine ti è preso?, mi sgridò severamente il signor Sullivan, una volta che mi fui riassestato e che lui mi ebbe tratto in disparte. Mi imbronciai, indignato, dato che ero pure stato richiamato, invece di essere ringraziato - soprattutto da suo padre, che sarebbe dovuto essere il primo ad appoggiarmi! -, e incrociai le braccia al petto. Celeste piangeva convulsamente, e si era aggrappata alla gamba sinistra di suo padre, che le coccolava il capo e cercava di tranquillizzarla, ma non c'era verso di calmarla. Poi, a un tratto, si asciugò il volto e il naso con il dorso di una mano, e mi fissò con un'espressione che mi uccise l'anima e mi ridusse il cuore in poltiglia, per quanto odio e astio racchiudeva. Perché mi odi, Peter?, esclamò solamente, con voce piccola e rotta dal pianto. Rimasi di sasso. Odiarla. Magari avessi potuto odiarla. Sai quante sofferenze ci saremmo risparmiati? Quel giorno capii che io non avrei mai potuto odiarla. No. Perché volevo risponderle, e dirle che io l'amavo. Ma non che l'amavo nel senso che le volevo bene e ci tenevo a lei. Nel senso che l'amavo per davvero. Non dell'amore dei grandi, ma di quello vero. Socchiusi le labbra per ribattere a tono, contrariato, perché non bastava la lavata di testa di suo padre, ci si metteva pure lei con quelle domande idiote. Ma lei mi bloccò sul nascere con una frase orrenda, che da quel giorno - nonostante poi facemmo pace qualche tempo dopo - continuò a ripetersi nella mia mente in eterno, e che ricompariva sempre, anche e soprattutto nei momenti meno opportuni.

Celeste - Lasciati trovare [SEQUEL]Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora