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Thomas Black dondolava su l'altalena della casa famiglia, spingendo, nelle sue scarpe consumate, i piedi contro il terreno arido, sentendo sotto la suola dei leggeri sassolini, mentre il sole cocente gli batteva sul collo latte, segnandolo. Più stringeva le catene scure, scottanti e più sentiva fra i capelli lo scorrere del tempo che ormai lo castigava fra quelle mura da due mesi, concedendogli di vedere la propria famiglia solo due volte a settimana. Il brusio ampio dei suoi pensieri lo stava macchiano fino a consumargli l'anima e, ad occhi socchiusi, si lasciò dondolare fra i richiami netti dei sorvegliati che lo invitavano a rientrare per pranzare, ma Thomas non si mosse, rispondendo al telefono che gli vibrava a gran forza nella tasca dei pantaloni lunghi che si ostinatava a portare pur di non far vedere i graffi dell'incidente, ancora limpidi, freschi.

«pronto?» strozzò la domanda, sentendo la gola dannatamente secca e gli occhi lucidi, arrossati da una notte insogne, danneggiata da un pianto amaro contro le pareti di un cesso qualunque

«amore» Thomas non si stupì di sentire al capo del telefono la voce morbida di suo fratello maggiore Samuel, sentendo dentro di sé un vuoto che pian piano gli stava scavando il petto

«ehi» lo salutò schiarendosi la voce in un colpo di tosse e piegandosi in avanti su quell'altalena sempre più calda.

«ciao, tesoro. Sei in viva voce» lo salutò Hanry mentre beveva il suo caffè vicino ai fornelli ed osservava i propri fratelli più piccoli ben seduti intorno al cellulare da cui risuonava la voce di Thomas.

«emh... Ciao» Hanry si maledì mentalmente nel sentire la voce soccitta e rauca del fratello minore, puntando gli occhi su Samuel che gli si avvicinò con sguardo preoccupato.

«Tommy come va lì? Come stai?» a rompere il ghiaccio fu la voce spinosa, agitata di James che, ormai, erano diversi minuti che si faceva condurre dal ballonzolare della sua gamba, ascoltando attentamente le parole spezzate di suo fratello minore.

«normale» i presenti si guardarono spaesati, abbattuti dalla tristezza del ragazzino.

«e dimmi.... Hai fatto qualche amicizia?» Charles si pentì subito dopo, sentendosi graffiare dai sospiri di Thomas e dagli sguardi rividi dei suoi fratelli.

«no» la risposta fu schietta, quasi come se nel nominarla si fosse scottato, bruciato.
Thomas aveva smesso di sforzarsi, sentendo il peso dei propri ricordi sulle spalle, come se intorno a sé non ci fosse nulla se non lui.

«domani arriviamo verso le undici e ti portiamo a pranzo fuori, che ne dici?» cercò di rimediare, Charles, sentendo dentro di sé un vuoto enorme, doloroso.
Thomas fece scoccare la lingua contro il palato e sorrise debolmente a quell'affermazione, ormai succube nel nero che lo circondava.

«si, va bene.
Adesso vado che devo mangiare» mentì il più piccolo, alzando leggermente il tono della voce per coprire i richiami di Atlas che gli stava correndo in contro.

«oh... Okay. Ci sentiamo sta sera.» lo salutò James, osservando Hanry avvicinarsi al telefono e piegarsi in avanti sul tavolo.

«piccolo, cerca di mangiare almeno metà piatto» lo ammonì occhi verdi, sentendo in sottofondo i sospiri pesanti del protagonista

«okay. Ciao» chiuse la chiamata il roscio, sorprendendosi nel essere tirato indietro dalle mani nodose di Atlas che lo spinse in avanti, facendolo dondolare nell'aria calda di metà giugno.

«Ats!» lo chiamò sorpreso il roscio, ancorando le mani alle catene cocenti.
Occhi foglia fermò quel movimento e sorrise al nostro protagonista che arrossì ampiamente, colorando le gote di un rosso morbido.
Cosa gli stava succedendo?
Più il tempo passava e più ogni emozione che aveva sempre provato, a cui si era sempre affibbiato, svaniava, scemava completamente, rendendolo atono in un mondo ricco di colori, ma con Atlas era diverso; era l'unico che, anche se flebile, riusciva a fargli provare un minimo di emozioni che, Thomas, costudiva come fosse un diamante in un mondo di merda.
Atlas era il suo diamante.

FecciaWhere stories live. Discover now