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Thomas camminava lentamente per le strade buie di una Liverpool che a stento riconosceva, lasciando che la pioggia fredda gli bagnasse il corpo candido nel silenzio dei grandi palazzi che lo accerchiavano, facendo sì che lo strusciare delle sue scarpe rimbombasse fra i respiri pesanti dei dormienti. La pioggia aumentò a dismisura, cadendo come lame, condotte dal singhiozzare e dai respiri frettolosi del nostro protagonista che non osava affrettare il passo, continuando a strusciare la suola delle sue scarpe contro il cemento rovente e bagnato di quella città. Si morse le labbra rosse pur di trattenere il pianto strozzato, lasciando che la pioggia si mischiasse amica fra le sue lacrime, graffiandogli il volto, mentre i suoi piedi lo conducevano lenti in quella casa dove era cresciuto, dove, ad attenderlo, c'erano i suoi ricordi che volavano limpidi in un mare di stelle.
Alzò lo sguardo e con un groppo in gola strinse il ferro rovinato del suo cancello, spingendo la punta dei piedi nelle piccole fessure che lo invitavano ad entrare. Strinse gli occhi pur di non cedere alla paura di quell'innata altezza che lo segnava da quando era piccolo, sentendo il cuore battere frenetico fra la pioggia ruvida e si lasciò andare, cadendo di sedere contro il terriccio umido e lasciando che il ferro arrugginito gli graffiasse la pelle rompendogli la maglia zuppa, bianca.
In un grugnito di dolore si lasciò andare fra il prato sottile di quella casa che lo aveva visto crescere giorno dopo giorno, ridere fra le mura sottili e che, in quell'istante, gli sembrò dannatamente entranea nonostante i mille ricordi sbiaditi che gli giravano intorno come un tornado dalle mille lame.
A risvegliarlo dai suoi pensieri furono delle luci calde che fecero brillare le finestre della casa, condotte da della musica morbida, color felicità. Sbirciò da uno spiraglio della finestra principale, osservando i suoi fratelli ridere felici fra le ragnatele fitte dei loro pensieri, dei loro problemi, danzando sui fili che li soffocavano da troppo tempo. Li osservò lasciarsi andare fra le note di Dreams dei The Cranberries, ballando felici fra le sedie della cucina e fra le stelle del loro cielo che gli stava mostrando la via per evadere dal nero dei mari che li soffocava. Si ritrovò a sorridere nello spiare la figura di Charles volteggiare contenta sul tavolo della loro cucina, non curandosi minimamente del buio che lo possedeva, ballando e ballando fra le stelle del suo cielo, lasciando che la luce del suo corpo illuminasse l'intero quartiere, portando con sé le risate ed i sorrisi dei suoi fratelli, compreso Thomas che non poteva che ballare da solo in quel giardino ricco di ricordi, ricco di pozzanghere di sogni che non seppe attraversare.
Volteggiò e volteggiò scalzo in quel giardino dalle mille luci, lasciandosi andare alla musica sottile che lo fece ridere di gusto fra uno scatto e l'altro, battendo le mani ed i piedi a ritmo di una musica che lo condusse a viaggiare nel giallo dei suoi ricordi, saltando e girando per la strada di ritorno per il mondo dei balocchi.
Si sentì volare fra le sue risate rumorose, non riuscendo a trattenersi neanche sotto lo sguardo confuso di occhi foglia. Assonnato guardava la figura bagnata fradicia del suo compagno di stanza, notando i piedi scalsi e sporchi e la maglia stracciata, macchiata da qualche striscia di sangue

«ma che ti prende?!» lo riprese tappandogli la bocca pur di cessare la chiassosa risata che pian piano lo stava portando con sé.
Thomas rise e rise continuando a sentire quella dannata musica girare e girare come un dannato disco ritto.

«shh! Zitto o ci scopriran-» cercò di zittirlo, ma la sua voce venne spezzata da una risata ancor più forte del roscio che lo portò con sé.

«Robin, zitto!» cercò di rimanere serio, Atlas, ma non potè che cedere sotto a quel rumore così soave, lasciandosi trasportare in un cielo di mille stelle che riconobbe in solo sguardo, sorridendo felice fra i colori morbidi che li accerchiavano.
Le sue mani si spostarono lente dalle labbra rossicce di Thomas, lasciandosi condurre nel mondo dei balocchi, sotto la pioggia ruvida, nel cortile di quel dannato edificio dalle grandi finestre e dalle poche speranze.
Atlas si fece portare, fra una giravolta e l'altra, nel mondo dei balocchi, lasciando che i loro piedi danzassero nudi sul terreno bagnato di quel cortile, stringendosi l'uno fra le braccia dell'altro mentre dalle loro labbra non poteva che nascere un ritornello straziato, stonato che avrebbe mutilato chiunque osasse ascoltarlo, ma ai due ragazzi non importava; fra i loro respiri, quel ritornello, non poteva che essere la melodia più soave mai esistita. Allora ballarono e ballarono lasciandosi bagnare, macchiare da mille lacrime del cielo, cadendo insieme in una pozzanghera di luce, cavalcando un mare di stelle, volteggiando impiedi sull'anello di Saturno e volando al di sopra di quegli sguardi che li avevano sempre segnati, giudicati da una semplice copertina.
Si toccarono come mai ebbero il coraggio, sentendo il calore dei propri corpi sovrastare il freddo gelido della pioggia che li fasciava l'uno dell'altro, conducendo le mani di Thomas lungo i fianchi infantili di Atlas che respirava lento, bagnato contro il collo candido del roscio dove aveva cinto le sue braccia, conducendo un ballo più cauto, lento. Thomas continuava a canticchiare quella docile melodia con un filo di voce, lasciando che i suoi occhi si chiudessero stanchi, lucidi, contro la spalla di Atlas, portando le mani al di sotto della maglietta fradicia, bluatra, stringendogli i fianchi paffuti, morbidi, sentendo le mani del ragazzo andargli a stropicciato i capelli bagnati in dei piccoli grattini che lo fece ero viaggiate sulle montagne russe più impetuose.

FecciaWhere stories live. Discover now