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La giornata passò ancora più lentamente del solito perché aspettavo con ansia che arrivasse la sera. Ero entusiasta di uscire con Anna, mi mancavano le nostre serate insieme e avevo voglia di quei preparativi tipicamente femminili prima di un'uscita: la scelta dei vestiti, l'acconciatura dei capelli, il trucco. Tutte cose che in realtà non mi appartenevano molto, ma quella sera mi andava di farle.

Così, dopo cena, mentre Luca come al solito era assorto nella sua attività preferita - guardare la tv buttato come una larva sul divano - io scelsi accuratamente i vestiti da indossare.

Dato che andavamo a ballare, optai per una minigonna nera attillata che mi aveva prestato Anna qualche mese prima e un top rosso acceso che avevo da qualche anno, ma che non avevo mai avuto il coraggio di mettere. Ci abbinai un paio di sandali neri col tacco, anche quelli mai messi. Avevo deciso di esagerare, di essere diversa dalla solita me, almeno per una sera.

Disegnai alcuni boccoli sui capelli, in modo da dargli un po' di volume, e li legai in un'acconciatura semplice ma elegante, così da lasciare scoperto il viso. Indossai due orecchini a cerchio con dei brillantini rossi, in perfetto abbinamento con il top.

Non sembravo io, il che era perfetto.

Respirai profondamente e uscii dal bagno.

In fondo, per me, era ancora una sorta di recita: il brutto anatroccolo che finge di sentirsi cigno o forse il cigno che si sente ancora anatroccolo e fa di tutto per non sentirsi più così.

Il ticchettio insolito dei miei passi risvegliò Luca dal suo torpore e lo convinse ad alzare la testa dal divano per guardare nella mia direzione.

Lo vidi strabuzzare gli occhi, per qualche secondo sperai in un complimento, sperai di aver fatto breccia in quello scudo d'indifferenza che aveva sollevato tra noi.

Ma fu solo per un momento.

Tornò a guardare il televisore con il solito sguardo assente e biascicò qualcosa del tipo:

«Se sei pronta possiamo andare».

Io presi la giacca dall'attaccapanni di legno che mi piaceva tanto e che avevo iniziato ad odiare, come tutto in quella casa troppo perfetta, e me la infilai addosso. Mi avvicinai al divano da cui Luca non accennava ad alzarsi, gli strappai dalle mani il telecomando che stringeva come fosse stato un tesoro e spensi il televisore.

«Sono pronta. Andiamo?».

Senza nemmeno guardarmi si alzò dal divano come un automa, si mise la giacca e uscì di casa lasciando la porta aperta e dimenticandomi lì, vicino al televisore, come parte dell'arredamento.

Di nuovo tirai un bel respiro per mantenere la calma, presi le chiavi di casa, spensi la luce e inchiavai la porta poi, sospirando, mi diressi verso l'ascensore dove, forse, Luca si era ricordato della mia esistenza e mi stava aspettando, con l'espressione scocciata e lo sguardo assente. Come sempre.

In macchina non disse una parola e, a dir la verità, nemmeno io mi sforzai di avere una conversazione.

Mi chiedevo solo fino a quando avrei resistito, fino a che punto potessi impegnarmi a stare vicino a qualcuno che, evidentemente, non mi voleva.

Non avevo mai creduto al detto non mi importa se non mi ama, io lo amo abbastanza per entrambi. In amore la parola abbastanza non ha senso e sicuramente a me non bastava: l'amore deve essere totale e deve esserci da entrambe le parti.

L'amore a senso unico non può essere abbastanza, non è amore, è autodistruzione.

Parcheggiammo a diversi metri dal locale, non mi sarebbe importato se non fosse stato che l'idea di avere ancora qualche minuto da trascorrere da sola con lui, mi uccideva.

Lo stesso peso dell'amoreWhere stories live. Discover now