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Mi trovai davanti al vecchio capanno: una piccola costruzione di legno, barcollante e malridotta. Bussai tre volte, come da istruzioni ricevute.

Il portone si aprì con un cigolio sinistro, da film dell'orrore, ma di quelli di serie B. Entrai nel buio del capanno, pregando di poter di nuovo rivedere la luce.

La porta si chiuse alle mie spalle con un rumore sordo, facendomi sobbalzare.

«Vieni, vieni, non aver paura», non riuscii a distinguere la voce, forse era proprio il Boss, ma non potevo giurarlo.

Mi ci volle qualche secondo perché gli occhi si adattassero all'oscurità e iniziassi a distinguere le sagome.

C'erano solo i quattro uomini che avevo incontrato dieci minuti prima al bar. Tre erano in piedi: due al mio fianco e uno dietro di me, vicino alla porta. Anche volendo non sarei riuscita a scappare, mi avevano accerchiata bloccandomi l'unica via di fuga.

Il boss, invece, era seduto in fondo alla stanza, davanti a me, dietro ad un tavolo. Aveva l'aria di essere il suo ufficio.

Con il braccio teso verso di me, porgeva un piccolo sacchetto di plastica trasparente, con un'ormai troppo familiare polvere bianca.

Mi avvicinai velocemente e tesi la mano.

Lui ritrasse la sua.

«Prima i soldi», disse bruscamente. Quella specie di ghigno, che doveva essere un sorriso, si spense completamente. Ora mi guardava minaccioso.

Estrassi dalla tasca della giacca tutto quello che avevo.

«Quanti?», chiesi.

Il Boss fece un cenno verso uno dei suoi uomini, lui si avvicinò e mi strappò il denaro dalle mani, contò un bel mucchio di banconote e le consegnò al Boss, poi mi restituì le altre, come fossi stata una bambina incapace di comprendere il reale valore dei soldi.

«È roba buona, puoi controllare», disse porgendomi il piccolo sacchetto.

«Mi fido», lo presi alla svelta e lo infilai in tasca, assieme al denaro che mi era rimasto.

Mi voltai e, ancora più velocemente, mi diressi verso l'uscita.

«Quanta fretta dolcezza - disse lo sfregiato parandosi davanti alla mia via di fuga - te ne vai così, senza nemmeno salutare?».

«Lasciami passare!», usai un tono freddo e perentorio, guardandolo dritto negli occhi perché non capisse che avevo paura. Ma quelli come lui, la paura la fiutano a chilometri di distanza e la mia non era solo paura: era terrore allo stato puro.

«Prima dobbiamo finire il discorso che avevamo iniziato l'ultima volta, quando il tuo amichetto ci ha interrotti».

Si avvicinò e io, istintivamente, arretrai. Mi afferrò per un braccio e con un solo strattone mi spinse contro la parete. Non ebbi il tempo di reagire, sentii solo la mia schiena colpire il muro e la testa piegarsi all'indietro per l'impatto. Anche quella urtò violentemente contro la parete. Evidentemente il legno era solo all'esterno, come rivestimento di una struttura in muratura, perché il legno avrebbe fatto sicuramente meno male.

La vista per un secondo si oscurò e mi ritrovai a terra, con il ventre e i palmi delle mani sul pavimento. Sotto la guancia sentivo il freddo delle vecchie mattonelle e l'odore di polvere, mentre tra i capelli iniziava a scorrere qualcosa di caldo.

Cercai di rialzarmi facendo forza sulla braccia.

Mi girava la testa.

Non feci in tempo nemmeno a mettermi in ginocchio, che qualcosa mi colpì alle costole, facendomi rotolare di lato, di nuovo contro il muro.

Lo stesso peso dell'amoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora