14. ᴍɪsᴜɴᴅᴇʀsᴛᴏᴏᴅ

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Charlotte varcò la soglia del numero 43.
In casa regnava un silenzio assordante, il nulla più assoluto e la giovane non seppe dire se davvero fosse così o se fossero i suoi pensieri troppo forti e chiassosi a toglierle l'udito.

Quando fu in salotto, ebbe la certezza che i suoi pensieri non le stavano offuscando nessuno dei suoi cinque sensi.
Suo fratello stava seduto sul divano con le cuffiette nelle orecchie, e appena la vide alzò lo sguardo dall'ebook e li posò su di lei: si rese conto subito che qualcosa non andasse, e infatti si tolse gli auricolari.

«Charlie?» mormorò, preoccupato.

La ragazza si voltò cercando di non mostrare quel che provava, e vide suo padre seduto al tavolo in cucina intento a picchiettare sulla tastiera di computer, e sua madre che stava scendendo le scale.

Si sentì oppressa, circondata da ogni lato.
Tuttavia resistette.

«Cos'è quella faccia? - domandò la madre quando fu agli ultimi gradini - Charlotte?»

Fu allora che gli argini del fiume si ruppero, e tutto straripò: nel suo caso, si ruppe la barriera di resistenza che aveva edificato e fuoriuscirono emozioni.
Crollò, distrutta. La madre, preoccupata come non mai, si avvicinò per sostenerla, ma lei era già seduta a terra che si abbracciava le gambe, la testa appoggiata sulle ginocchia cercando di nascondere ciò che tuttavia non avrebbe mai dovuto aver paura di mostrare.
Il fratello rotolò giù dal divano e il padre chiuse il computer raggiungendo la figlia.

«Sono fuori. - disse, esattamente come aveva detto a Francesco, sapendo che però lui aveva capito meglio di quanto stesse sforzandosi di fare la sua famiglia - Mi ha allontanato dalla squadra.»

I genitori avevano capito che non era assolutamente il caso di dirle che se l'era meritato, che il suo comportamento fuori dai limiti e la sua indole ribelle l'aveva condotta lì: la figlia era troppo disperata per soccombere anche i rimproveri, e ormai era grande abbastanza per capire che quel male se l'era procurata da sola.

L'unica cosa, in quel pianto senza freni e in quella disperazione totale, il padre e la madre capirono quanto il calcio valesse per lei, e quando starne lontano la facesse stare male.
No, non vi era verso, non vi era speranza alcuna: non sarebbero riusciti a distoglierla dal campo da calcio, mai.

«Lei lo sa. - cercò di consolarla Will, l'unico che almeno ci provava a vedere le cose dalla sua prospettiva, a differenza di tutti gli altri - Lo sa che aver rinunciato a te vuol dire condannare la stagione da qui in poi. Tempo pochi giorni e ti riconvocherà... sei troppo importante per la squadra.»

«Già. - fece lei, divincolandosi d'improvviso dalle braccia della famiglia e asciugandosi gli occhi. Fece due passi verso le scale, si attaccò al corrimano e aggiunse: - Sono importante a livello agonistico. Mi piacerebbe essere importante anche a livello umano.»

Risalì i gradini lentamente, prima di venire fermata dalle parole del padre:
«Per noi sei importante, Charlie. Te e Will lo siete, più di ogni cosa.»

«E allora perché mi sento come se non fosse vero?»

E con quella domanda aleggiante nell'aria, senza una vera e propria risposta, si chiuse in camera.

****

Era sera.
Charlotte non aveva cenato, nonostante fossero venuti in camera sua, a turno, sua madre, suo padre e suo fratello: in effetti la giovane dovette ammettere di essere rimasta stupita da quell'interessamento, non era mai stata al centro delle attenzioni e delle premure dei genitori, un po' per volere suo. Giocare a calcio era sinonimo di cavarsela da soli, e inutile dire che lei facesse sempre il possibile per non chiedere aiuto agli altri anche se, talvolta, doveva farlo per forza.

𝐍𝐄𝐕𝐄𝐑 𝐆𝐎 𝐀𝐖𝐀𝐘 || Weston McKennie Where stories live. Discover now