2 ~ Frenesia

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Romina procedeva trotterellando verso il bar. Occhiali da sole, capelli al vento, borsone ballonzollante a un braccio, tette ballonzanti. Un metro e cinquanta di sensualità femminea. Sorrideva nella mia direzione.

-Oh, mio Dio! La mia collega c'è!- esclamai a voce alta, e il suo sorriso si allargò mentre attraversava la strada e si apprestava a salire sul marciapiede.

Si bloccò di colpo, tornò a guardare verso la strada, tra le transenne Morettino. Si volse verso di me.
-E i tavoli dove sono?-

Fausto si precipitò verso di lei mentre io servivo una cliente al banco. -Li hanno rubati!-

-Come, li hanno rubati?-

-Hanno rubato i tavolini?- mi chiese Marica – la cliente in questione – e cercai di scherzarci su per non mettermi a urlare.

Erano le undici.
Le undici, dannazione.
Basta con 'sta storia!

-Eh... li hanno portati a fare un giro-

-Ah, ecco. Perché io non ho sentito niente, stanotte. Mi sembrava strano. Li sta facendo ritinteggiare?-

Rimasi pietrificato. Ero stato troppo scherzoso, evidentemente. A che serviva fare battute se la persona dall'altro lato non le capiva? Se io non ero in grado di farmi capire? Imbarazzante. -Li hanno rubati davvero-

-Ma come! Sul serio? Inaudito! La gente non conosce dignità!-

Cazzo, erano tre tavolini.
Tre tavolini!
E basta!
Gesto orribile, sì, ma dopo quattro ore non ne potevo proprio più.

Romina mi raggiunse dietro al banco, tirandosi la mascherina davanti al viso e si legò i capelli in una coda bassa. -Ma c'è il video? Io voglio vedere il video!-

-Sì, ce l'ha Fausto, ovviamente. È successo stanotte...- e neanche il tempo di finire di parlare che era già corsa giù dal banco, in direzione del nostro capo.

La giornata trascorse frenetica come al solito, abbastanza per dimenticare il dramma dei tavolini – che tornò blandamente alla ribalta solo quando Fausto, lo stesso pomeriggio, ne acquistò altri tre. Era stato divertente vedere come la notizia del furto si fosse sparsa alla velocità della luce, con la gente che arrivava apposta – a volte con la scusa di un caffè, altre con nemmeno quella – per chiedere informazioni a riguardo. Di solito eravamo noi che facevamo girare le notizie: era stato strano essere la notizia del giorno.

Sbirciai l'orologio appeso al muro alla mia sinistra. Mancavano dieci minuti. Dieci minuti esatti alla sedici ed ero pronto a lanciare il grembiule, scendere dal bancone e tornare a casa.

Neanche a dirlo, nel giro di un nanosecondo venimmo assaliti da un numero imprecisato di clienti. Effetto onda, tipico di un bar: l'istante prima stavi lì a grattarti il cavallo dei pantaloni, con la noia che ti mangiava fin dentro le ossa, e quello successivo volavano piattini, caffè, granite.

-Due da portare? Zuccherati o zucchero a parte?-

Ed erano già le sedici e venti.

-Un'arancina? With ham and mozzarella or meat? Riscaldo?-

-Cash or card?-

Romina si precipitò verso di me. -Come cazzo si dice "riscaldo" in inglese?-

-E che ne so. Indicagli il microonde. È un pezzo d'antiquariato, ma sempre microonde è- tornai a rivolgermi ai clienti, tentando di capire quello che stavano dicendo. Era bello indossare la mascherina e fare finta di non capire per colpa delle difficoltà di comunicazione date proprio dalla mascherina. -Orange juice?-

-Ma siamo a giugno!- sbraitò Romina in dialetto, per non farsi capire dai turisti. -Ora gliele faccio io le arance, a giugno, magari!- esclamò rivolta verso la macchina del caffè, tastandosi il seno.

Dannazione.
Amavo quegli attimi di frenesia assoluta.

Stavo uscendo finalmente dal bar, dove era appena tornata una parvenza di calma. Erano rimasti un paio di clienti abituali, Fausto a chiacchierare con loro, dentro, e Romina seduta su uno sgabello, fuori, sotto il marciapiede, con un gomito appoggiato a uno dei nuovi tavolini color salvia-verde-dentifricio-sbiadito. Fausto aveva un ottimo gusto in fatto di home-design, nulla da obiettare – o quasi.

La mia collega, in tutto questo, stava occhi negli occhi con il suo spasimante. Non il suo compagno. Il suo spasimante.
Aveva un modo particolarissimo di accavallare le gambe, accarezzarsi i capelli, sorridere e fumare. Senza mai distogliere gli occhi da quelli del suo interlocutore.
Una sirena.

Mi trovavo spesso a guardarla, ad ammirarla di nascosto. Mi piaceva, anche se sapevo di essere affascinato da lei soprattutto per quel suo particolare modo di essere che, in fondo – non troppo in fondo – un po' le invidiavo. La spavalderia e la grazia innata della seduzione. Cose che io non avrei mai avuto neppure a cent'anni, neppure se avessi venduto l'anima al Diavolo.
Con certe doti ci nasci. Possedeva una sicurezza che io di certo non avevo.

Non ero più il ragazzo tracagnotto del liceo, ma mi muovevo ancora come se lo fossi. Sgraziato, goffo. E poi non sapevo interagire con gli altri, mi imbarazzava pensare di poter apparire così sicuro di me, spavaldo. Ero certo che avrei incassato qualche risatina imbarazzata e un rifiuto. Perché davo sempre per scontato di non poter interessare a nessuno. Dopotutto, doveva pur esserci un motivo se a trent'anni ero ancora vergine, no?

Arrivato a casa, salutai mia madre da lontano, mentre Orso e Ombretta mi assalivano con tutto il loro amore canino. Mi mancava stringere mia madre in un abbraccio, ma c'era di che essere contenti, nonostante il Covid, dato che lo aveva beccato in una forma leggerissima, asintomatica. Stare lontani e con la mascherina pure in casa diventava meno un supplizio. Quando lo avevo scoperto mi era preso il panico. Con tutte le patologie che mia madre si portava appreso. E non ero stato io, ché, lavorando al bar, avevo sempre temuto di poterglielo portare in casa, e questa cosa mi rincuorava un po' di più. Ma ormai eravamo in dirittura d'arrivo pure di quell'ostacolo.

Mi mandò un bacio da lontano e io mi chiusi nella mia camera con Orso e Ombretta. Presero immediatamente possesso del mio letto, dannazione. Non era servito assolutamente a nulla optare per un matrimoniale, anche se ero single, dato che i miei cani erano grandi come pony e mi lasciavano, a stento, un angolo di spazio – e neanche riuscivo a distendermi del tutto dentro al letto. Un piede restava sempre fuori.

Ero esausto. Lo ero sempre a fine giornata, indipendentemente dalla mole di lavoro. Più di nove ore in piedi, otto delle quali le passavo a correre da una parte all'altra del quartiere in cui sorgeva il bar. L'incubo del servizio a domicilio. Le gambe friggevano, la caviglia sinistra costantemente gonfia. Il dolore alla schiena. L'ernia. Il busto che mi mozzava il respiro.

Arrivavo al punto di non avere assolutamente voglia di fare nulla – o quasi.

Mi tirai a sedere sul letto, rischiando di cadere di lato, e spostai con la forza Orso – una montagna di quaranta chili quasi inamovibile – per avere più spazio. Recuperai il cellulare e feci scrosciare le dita. Mi distesi di nuovo, posizionando i cuscini nel modo che mi risultò più comodo possibile.

Era arrivato il momento della giornata che amavo di più.
Staccavo la mente.
Il cellulare in mano e non esistevano messaggi, chiamate.
Avrei potuto ignorare chiunque.

Ignoravo chiunque.

A volte, persino le mie amiche più care, ma loro lo sapevano. Mi conoscevano più di chiunque altro. 

Orso scese dal letto, dirigendosi sicuramente verso un altro letto – mi ero già mosso troppo per lui, lo avevo disturbato troppo.

Ombretta si mise comoda tra le mie gambe, utilizzandone una alla stregua di un cuscino.

Ero pronto. Pronto a dare il via a una nuova avventura.
A sfogarmi.
Esisteva al mondo gente che urlava, sbraitava, rompeva cose. Correva. Io correvo tutto il giorno come una trottola impazzita, e proprio non mi sarebbe venuto in mente di fare sport per scaricare la tensione manco se fossi stato posseduto, ci avrei giurato.

Avevo un modo tutto mio per sfogarmi. Ovviamente, non aveva neppure a che fare con il sesso.

E iniziai a scrivere.

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