13 ~ Ferie

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Ero in ferie da meno di dodici ore e il mio umore era già tetro.

Non per Stefano, ovviamente. Figurarsi: mi ero già dimenticato di Stefano – non era vero, ma stavo tentando di autoconvincermi della cosa. Dopotutto, era partito proprio il weekend prima che entrassi in ferie, non lo avrei visto per almeno dieci giorni e quindi... avevo proprio il tempo necessario per dimenticarlo davvero.
Di provare almeno a farlo.

Il mio umore tetro era dettato, quindi, da ben altro.

Perché la sfiga non poteva abbattersi su di me solo in una forma, una cosa per volta, e non bastava che fossi già così in conflitto con il Signor Amore che aveva tentato – per l'ennesima volta – di prendermi per il culo, illudendomi di essere approdato al prologo di una meravigliosa storia romantica quando, invece, mi ero scoperto nel bel mezzo di una trama horror. Splatter: con tutti i miei sentimenti scaraventati a destra e a manca sulle pareti, sanguinolenti, intenti a imputridire sotto il sole dei sorrisi derisori con cui ero solito farmi male. Sorrisi che non esistevano nella realtà, ma che mi perseguitavano da sempre nella mia mente, echi lontani di sorrisi che erano davvero esistiti – alle medie e al liceo –, così ancora vividi nei miei ricordi tanto da essere diventati più veri di certe verità, nel mio presente.

Ferie. Quell'estate mi era presa la voglia di passare le ferie al mare. Forse perché lavoravo al bar e mi ero già sentito deridere un numero impressionante di volte per il colore nobile e pallido della mia pelle. Forse perché volevo dimostrare di essere pure io un tipo che fa, meno noioso di quello che appariva.
Chissà.

Comunque, volevo andare al mare.
Magari uscire a cena fuori, fare aperitivo, shopping in compagnia.
Erano cose che facevo di solito da solo. Se avevo voglia di bere, compravo da bere. Se avevo voglia di fare shopping, uscivo e giravo per negozi in tutta tranquillità, da solo.

Però mi era ancora difficile anche solo prendere in considerazione l'ipotesi di andare a mangiare una cosa fuori, andare al cinema, al mare, in uno qualsiasi di questi posti, accompagnato solo da me stesso. Forse proprio perché, nella mia mente, erano comunque luoghi di aggregazione e l'idea di frequentarli non aggregato a qualcuno, in maniera molto semplicistica, mi faceva sentire uno sfigato.

In mezzo alla folla, da solo.

Come quando andavo all'università e prendevo il due di picche dai colleghi colpiti in simultanea da una pigrizia improvvisa, pigrizia che impediva loro di uscire dal letto, di mandare un messaggio di avviso, lasciando me da solo, al bar, come un coglione, in loro attesa. Oppure come quando andavo al liceo e i miei compagni si organizzavano per andare al mare, ma a me neanche dicevano nulla perché davano per scontato che – grasso com'ero – mi sarei vergognato di andare con loro e avrei detto di no. O come quando i miei fratelli organizzavano i loro viaggi in giro per la Sicilia e a me non dicevano nulla perché sapevano a priori che avrei rifiutato il loro invito. Pure Gin e Vale erano affette da questa malattia di previggismo acuto: l'ultima me l'avevano combinata neanche troppi mesi prima, durante il periodo di Natale, quando erano andate a una mostra di Van Gogh e a me non avevano detto nulla perché sapevano che avrei lavorato, e l'ipotesi che mi sarei pure potuto organizzare, magari cambiando turno con Romina, per essere con loro, non aveva proprio sfiorato le loro menti.

E probabilmente, continuavo a non voler fare determinate cose da solo proprio per non innescare di questi ricordi. Ricordi dolorosi.

E quindi, anche quella volta, ero stato colto dal dubbio madornale.

E io, questa cosa, con chi cazzo la faccio? Con chi posso andare al mare?

Romina lavorava – ché se io ero in ferie era proprio perché lei compensava la mia assenza al bar.

CI SONO ANCH'IO Where stories live. Discover now