28 ~ Piano piano

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Dire che la giornata con Stefano mi aveva sconvolto era un eufemismo.
Mi sentivo sempre più a pezzi, spaesato e confuso.

Si era innamorato di me.

Benissimo.

Ma, tenendo da parte il fatto che poco credevo a questa cosa – come diavolo poteva venire in mente a qualcuno di innamorarsi di me? Di me! – come si poteva rinunciare di colpo a se stessi per qualcosa che, fino a quel giorno, non ti aveva suscitato nessuno interesse? Mettere tutto in discussione, capovolgere l'equilibrio – un equilibrio che non avevo mai avuto per davvero, ma quello che avevo cercato di costruire di me nel tempo stava, troppo velocemente, andando a farsi fottere.
Mi sentivo franare il pavimento sotto i piedi, intravedevo la voragine che si stava aprendo sotto di me, ma non avevo idea di come fare a saltare dall'altro lato della sponda e mettermi in salvo.

E, come sempre, finiva che in quei giorni non avevo voglia di fare nulla. Persino rispondere ai messaggi delle amiche diventava un'impresa titanica. Lottare per trovare la voglia di formulare frasi di senso compiuto, senza lasciare intendere lo sfacelo emotivo in cui mi sentivo incastrato, diventava impossibile. E non mi piaceva ammorbare le persone che mi stavano intorno, e che mi volevano bene, con le mie paranoie apparentemente prive di perché.
Anche se, a volte, questo mi portava ad allontanarmi dagli affetti fino a perderli. Un circolo vizioso dove mi sentivo costantemente con le spalle al muro.

Sarebbe successo lo stesso con Stefano?
Ne ero quasi certo.

Sciolsi l'abbraccio con Ombretta, guadagnandomi un mugolio di disappunto. Girò il musetto nella mia direzione, spalancando le zampe, ancora in cerca di coccole. Sorrisi e la abbracciai, affondando il naso nel morbido pelo tra le orecchie. Odorava di pane tostato.

Prima o poi, anche lei se ne andrà.

E gli occhi mi si riempirono di lacrime.
Quando mi sentivo a quel modo, ogni cosa riusciva a ottenere il potere per abbattere le mie sottili difese e travolgermi. Ombretta aveva già cinque anni, il tempo trascorreva troppo velocemente, scivolava via senza darmi sazio. Non mi sentivo appagato dal tempo che riuscivo a dedicare a ciò che per me era importante. Non era mai abbastanza, non era mai esaustivo. Mi sentivo in colpa, dopo, sì certo, ma come si faceva a cambiare le cose e a smetterla di sentirmi in colpa?

Non ero andato al lavoro quel giorno. Il perché era molto semplice: non avevo alcuna intenzione di trascorrere la giornata a sentirmi chiedere: -Cos'hai? / Sei giù, oggi? / È successo qualcosa?-
Erano domande a cui non avrei voluto rispondere, ma che sicuro mi avrebbero fatto e che mi avrebbero potuto far commuovere – mi commuoveva sempre l'attenzione altrui nei miei confronti, ma era anche vero che possedevo una mimica facciale che non era in grado di mentire.

Era un valido motivo per assentarsi da lavoro?
Per me sì, lo era più di un mal di testa, del mal di schiena o di un forte raffreddore. I dolori fisici potevo sopportarli – stringevo i denti, di solito, e andavo avanti.

I dolori dell'anima no, non ero ancora riuscito a domarli.

Ed era già capitato che finissi per diventare oggetto di attenzioni al bar per motivi similari, e non avevo avuto alcuna intenzione di ripetere l'esperienza.

Mi alzai dal letto percependo gli occhi e le guance ancora umide di lacrime e mi chiusi in bagno alla velocità della luce, prima che mia madre mi beccasse. Non volevo farla preoccupare.

Mi fermai davanti al lavandino. Percepii un peso enorme piegarmi le spalle, un capogiro mi sorprese all'improvviso e mi aggrappai al bordo del lavandino, chiudendo gli occhi, in attesa che tutto la smettesse di essere vittima del mare in tempesta che si stava scatenando nella mia testa.

CI SONO ANCH'IO Where stories live. Discover now