Capitolo 19

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Sulla soglia dell'aula, ritto in piedi e circondato da un'aura così rossa da sembrare quasi porpora, c'era il licantropo che il giorno prima aveva attentato alla mia vita.

Non so dire cosa mi prese. Forse ero affetta dalla sindrome di Stoccolma e mi ero affezionata a quello che avrebbe potuto essere il mio carceriere. So solo che il licantropo pareva sofferente e la sua aura aveva qualcosa di sbagliato, che lo faceva sembrare sul punto di esplodere e far del male a se stesso. Sta di fatto che balzai in piedi, presi le mie cose in fretta e furia e lo raggiunsi.

«Che ci fai qui?» sbottai in quello che, nelle mie intenzioni, doveva essere un sussurro, ma che risuonò alle mie stesse orecchie come un grido.

Anziché rispondermi, lui si lasciò sfuggire un lamento e mi si accasciò addosso. Lo agguantai con entrambe le mani e lo spinsi nel corridoio, per fortuna deserto. «Cosa ti prende?» chiesi, mio malgrado allarmata, al vedere che aveva gli occhi iniettati di sangue e la fronte ricoperta di sudore. Si teneva un fianco con la mano e sembrava provare un dolore insopportabile; immaginai che fosse il punto in cui Kurt, il giorno prima, lo aveva trafitto con i suoi spaventosi artigli da vampiro.

Il licantropo non rispose. Pareva febbricitante e incapace di formulare un pensiero coerente, ma recuperò abbastanza forze da aggrapparsi alle mie spalle e annusarmi da capo a piedi.

«Non sei tu» mormorò, con un singulto di disappunto.

«Non sono io cosa?»

«Non sei tu! Ti prego, falla venire. Ti prego.»

Stava sragionando, non c'erano dubbi. Doveva avere un febbrone che avrebbe devastato un umano, e di sicuro non era salubre neanche per una creatura soprannaturale.

«Hai bisogno di cure. Ti porto in ospedale» stabilii, presa da un moto di tenerezza quando vidi che la sua aura era sempre più flebile e stava perdendo colore a vista d'occhio.

Lui mi si agitò tra le braccia, con abbastanza vigore da rischiare di mandare al tappeto tutti e due. «Non posso!» protestò. «Gli umani non devono vedermi.»

Non sembrava granché consapevole del fatto che anch'io ero un'umana, per cui lasciai perdere i discorsi sensati. «Almeno fatti curare da qualcuno della tua specie» obiettai mentre mi rovistavo nelle tasche. Trovai un fazzoletto di stoffa, ringraziando la mia mania di usarli al posto di quelli di carta, e mi affrettai a tamponargli la fronte sudata.

Nemmeno quella sembrava un'opzione percorribile, perché il licantropo, al solo sentirla, rovesciò gli occhi nelle orbite e quasi svenne per lo spavento. «No! Loro non capirebbero. Loro... farebbero di tutto per portarmi lontano da lei.»

A quel punto, non mi sembrava di avere molte scelte a disposizione. «Va bene. Ci penso io, allora» dichiarai, rassegnata.

Quasi me lo caricai in spalla, riflettendo tra me e me che, se Kurt mi avesse beccata a socializzare con il suo peggior nemico, mi avrebbe fatta a fette o mi avrebbe morsa per l'eternità.

Salutai la guardia all'ingresso del dipartimento con il migliore dei miei sorrisi. «Ha mal di stomaco» mi giustificai indicando l'energumeno che stavo quasi trascinando fuori dall'edificio, e da tanto era pallido aveva assunto il colore del latte cagliato. «Troppe birre, ieri sera.»

Nessuno disse niente, per fortuna, per cui mi tirai dietro il licantropo, felice che, a differenza dei vampiri, la luce del sole non sembrasse danneggiarlo più di tanto. Casa mia si trovava a poca distanza dall'università, per cui riuscii a raggiungere il palazzo senza attirare l'attenzione di qualcuno. Entrai nel salone d'ingresso del piano terra, meravigliata che, dopo solo due giorni di assenza, mi sembrasse ormai un luogo pressoché estraneo, e costrinsi il licantropo a salire le scale.

Il ragazzo con l'aura d'argentoWhere stories live. Discover now