Capitolo 54

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Mi sforzai di ricacciare indietro le lacrime e concentrai lo sguardo sulla pozza di sangue che individuai sul pavimento, di fianco a quella che doveva essere la fornace ormai spenta dell'acciaieria. Dal soffitto pendeva una catena, rotta a metà e spessa quanto un mio braccio.

«L'hanno portato via!» mi sfuggì in un tono disperato di cui mi pentii subito.

Avrei voluto prendermi a pugni per quel momento di debolezza, visto che la mia delusione si riverberò sui volti dei miei compagni e soprattutto su quello di Kurt, che mi guardò a occhi sgranati e tentò di prendere una boccata d'aria per calmarsi.

Ebbi l'impressione che la mente mi fosse finita in un pantano, tutti i pensieri fossero affondati nella melma e non ne fosse rimasto neanche uno decente.

Ricorsi all'unico metodo che conoscevo per recuperare uno straccio di serenità quando ero sotto esame: pensare a qualcosa di piacevole.

Il modo in cui l'aura di Max si espandeva e mi avvolgeva di una luce lunare, quand'ero tra le sue braccia. I baci delicati che mi dava, temendo chissà come di farmi del male con l'energia che animava il suo corpo immortale. La maniera in cui mi aveva guardata, quando gli avevo confessato cosa provavo per lui.

Bastò ricordare quei momenti, per sentirmi più lucida e capire cosa dovevo fare.

Mi avvicinai a Marta, la afferrai per un polso e le ficcai in mano la maglietta di Max. «È ancora nell'edificio?» la interrogai.

La ragazza, che pure sembrava delicata come un nastro di seta, non si lasciò intimidire dallo sguardo folle che le lanciai: impugnò l'indumento con una determinazione che non mi aspettavo e chiuse gli occhi, rintanandosi nel luogo di concentrazione assoluta in cui, ipotizzai, le sue visioni si facevano più chiare.

Corrugò le sopracciglia, inseguendo nell'etere le tracce di Max. Provava dolore, quando ricorreva ai suoi poteri? Non me lo ero mai chiesto, e d'un tratto mi sentii in colpa per la fatica cui stavo costringendo tutti loro pur di ritrovare Max; Elena dovette cogliere il mio tormento, perché si avvicinò e, con la dolcezza disarmante di un bambino, mi abbracciò.

Mi divincolai dalla sua stretta appena Marta riaprì gli occhi. «È ancora qui» disse la ragazza, strappandomi un respiro di sollievo così profondo che quasi mi accasciai su me stessa per la stanchezza.

«Dove?»

«Vicino all'uscita.»

Repressi a stento un'imprecazione e mi fiondai fuori dal locale caldaie. Se Alaric era così pazzo da rischiare di avventurarsi all'aperto in pieno giorno, voleva dire che aveva un piano B: o i suoi sottoposti non erano poi tanto giovani, e qualche raggio di sole potevano anche sopportarlo, oppure avevano a disposizione un furgone o comunque un luogo alternativo in cui nascondersi, per sparire dalla circolazione per sempre.

In ogni caso, dovevo beccarli prima che abbandonassero l'edificio.

«Muoviamoci!» sbraitai, correndo e svoltando nell'infinità di corridoi con tale foga da rischiare di spiaccicarmi contro i muri. Saltai ostacoli e sgusciai sotto travi e lamiere pencolanti con il cuore nelle orecchie per l'agitazione.

Non potevo permettermi di perdere Max. Non potevo.

Sbucai nel salone d'ingresso, vagamente rischiarato dall'enorme portone della fabbrica, e inciampai per l'agitazione. Caddi a terra, sbucciandomi un ginocchio e facendo colare qualche goccia di sangue sul pavimento; per quanto fosse stata un'entrata in scena parecchio maldestra, si rivelò la mia fortuna, perché i vampiri che stavano fuggendo si bloccarono all'istante, si girarono verso di me con le narici frementi, avvertendo l'odore di sangue, e mi rivolsero un'occhiata famelica.

Il ragazzo con l'aura d'argentoWhere stories live. Discover now