1- 𝙊𝙗𝙨𝙘𝙪𝙧𝙖- 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢

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Il buio.

Il vuoto.

L'inezia.

Così nolente nei confronti della vita, così stanca di perseguire obiettivi irraggiungibili, che la sola idea svegliarmi, mi diede il voltastomaco.

A destarmi, però, fu un pungente odore di fenolo a solleticarmi le narici, e un suono intermittente a rimbombarmi nelle orecchie.

Aprii gli occhi, infastidita dal candore della stanza asettica e dalle luci bianche sul soffitto. Lentamente, cercai di muovermi, per capire dove fossi: quella doveva essere a tutti gli effetti una camera d'ospedale. Voltai la testa a sinistra e scoprii che quel suono che sembrava scandire i secondi, proveniva dal monitor di un cardiofrequenzimetro a me collegato da una serie di tubicini grigi, che andavano a diramarsi sul mio petto coperto da un camice in tessuto leggero e scadente. Voltandomi a destra, invece, sentii sul mio braccio il pizzicore dell'ago della flebo e una sedia vuota, su cui poggiava solo il timido raggio di sole che penetrava dalla finestra.

A guardare quelle sfumature di rosa e arancio doveva essere quasi il tramonto, ed ero sul punto di alzarmi, quando udii dei passi veloci entrare nella stanza. Piombò in camera una signora in carne, prossima alla pensione, i capelli corti e lisci adagiati sulla fronte, una divisa bianca e un forte profumo floreale.

«Ciao Amelia, sono l'infermiera Claire, come ti senti?» disse carezzandomi la testa con fare dolce.

«Dove sono?»

«Sei svenuta durante l'allenamento e la tua allenatrice ti ha portato qui, all' Halifax medical center di Daytona. I tuoi pattini e i tuoi vestiti sono nell'armadietto all'ingresso della stanza. A breve arriverà il medico per spiegarti quanto accaduto, invece la tua allenatrice si è assentata, per andare a chiamare tua madre. Le hai fatto prendere un brutto spavento cara».

Immaginai il suo spavento. Probabilmente, era dovuto al fatto che in caso di commozioni avrei saltato la gara che si sarebbe tenuta di li a due giorni, piuttosto che un reale timore nei riguardi del mio stato di salute. Nei giorni prima di una competizione, gli allenamenti per gli atleti agonisti erano ancora più intensi del normale: preparazione atletica, danza classica alternata a moderna, poi pattini ai piedi e avevano inizio le due ore del mattino in pista. Al pomeriggio, invece, lavoravo con una insegnante di ginnastica ritmica per poter essere più flessibile, poi rimettevo i pattini per altre tre ore e finivo la giornata con il potenziamento muscolare in palestra, insieme al mio partner, Kevin Dawson. 

La nostra disciplina era la coppia artistico, la specialità più difficile che il mondo del pattinaggio artistico a rotelle offrisse. Per restare ai vertici erano necessarie doti fisiche e atletiche che richiedevano costanza e disciplina. Kevin e io avevamo iniziato a lavorare assieme qualche anno prima, quando la nostra allenatrice Audrey Clark ci propose la partnership perchè si rese conto che in coppia avremmo potuto raggiungere risultati più alti. Ci vide lungo: nel giro di un anno avevamo raggiunto lo stesso livello tecnico della coppia rivale ai vertici in Florida.

A clamor di critica, a dividerci dall'oro, vi era solo il basso punteggio nel contenuto artistico dei nostri programmi di gara: peccavamo di complicità, risultavamo sincronizzati ma non coinvolgenti, un unisono tanto buono quanto robotico. Il motivo era semplicemente uno: eravamo atleticamente compatibili e caratterialmente agli antipodi. 

Star dei social lui, nel più completo anonimato io, tra noi si altalenavano periodi di battutacce e insulti, a periodi di completa indifferenza. In pista, lui non mi faceva cadere dai sollevamenti e io mi trattenevo dal tirargli accidentalmente una pattino in testa. Non avessimo avuto l'obiettivo comune di portare al collo l'oro mondiale di certo ci saremmo evitati senza grossi patemi. Ero disposta a tutto, pur di portare a casa quella medaglia.

RESILIENTWhere stories live. Discover now