5- 𝙊𝙣𝙚 𝙬𝙧𝙤𝙣𝙜 𝙢𝙤𝙫𝙚- 𝘑𝘰𝘳𝘥𝘢𝘯

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E: Vieni a trovarmi domani, fratello con il cervello?

J: Non ti faccio matematica, Ellison.

E: Riportaci Call of Duty, allora.

Sorrisi. Mia sorella minore sapeva come ottenere quello che voleva. 

Alle ragazze del Fairwinds portavano sempre un sacco di cose, per permettere loro di svagarsi. Che fosse per compassione, o senso di colpa, i familiari le riempivano costantemente di cazzate di ogni tipo. La settimana prima ero andato a trovare Ellison, e vedendo quel nuovo gioco, lo avevo preso in prestito, per giocarci qualche sera nella casa nuova. Pensai che nel marasma del salotto di quella clinica, nessuno si sarebbe accorto di un piccolo cofanetto mancante. Ma l'occhio attento di mia sorella, era impossibile da fregare.

J: Sissignora.

Ellison. Quanto sapevi essere rompicoglioni. Deteneva il primato per il numero di parole pronunciate in un minuto. Una parlantina sicuramente ereditata da mia madre, che si era premurata di donarle anche il suo animo puro, forse a compensare quell'eccesso di loquacità. Un cervello brillante, il suo, con cui non riusciva a fare pace. Non era nemmeno adolescente quando aveva iniziato a slittare sulla montagna russa di emozioni che le aveva rovinato gli anni più belli: alternava periodi di depressione e restrizione alimentare a periodi di umore forse troppo sopra le righe, in cui almeno mangiava come una persona normale.

Eravamo sempre stati uniti come famiglia, e l'avevamo supportata in ogni singolo ricovero, ma nulla era mai definitivo, con lei. Un'altalena di costanti alti e bassi. E noi, altro non potevamo fare che tenderle la mano, quando era troppo sofferente, e tenerci pronti a sorreggerla, quando sarebbe nuovamente precipitata dopo un periodo con l'umore tra le stelle.

Un equilibrio in cui tutti speravamo, ma che non arrivava mai. 

Ellison trovava la sua dimensione nel mondo della danza classica. Era un talento nato, che il grande palcoscenico desiderava ma non aveva mai potuto ammirare, a causa dei continui ricoveri. 

Lo sport era la linfa vitale nella nostra famiglia: mio padre, William, conobbe mia madre, Martina, in Italia. In ritiro con la sua squadra di pattinaggio velocità lui, in allenamento di pattinaggio artistico lei. A fare da cupido tra i due, fu la traiettoria che mia madre sbagliò provando una trottola: lo centrò in pieno, cadendogli letteralmente addosso. "Se vostra madre non fosse stata così imbranata, voi due non ci sareste"  ci ripeteva sempre, scherzando, mio padre.

Fortunatamente, mia madre compensò gli anni da atleta mancata, diventando una grande allenatrice. Nascendo nella culla del pattinaggio mondiale, studiò in Italia, e una volta trasferitasi in Florida si decise a fondare la Skating Academy di Clearwater, una società che aveva visto centinaia di bambini crescere divertendosi. Quanto a me, mi infilò il primo paio di pattini quando ancora portavo il pannolone. Vedere un bambino, che a malapena sa camminare, tentare di stare in equilibrio su dei pattini più grandi di lui, era probabilmente motivo di scherno, ma da piccolo me ne fregavo, del parere altrui. Non mi arresi mai, finchè caduta dopo caduta imparai a pattinare, facendo del pattinaggio artistico la mia più grande e costante passione.

Dopo anni di gare, in singolo e coppia artistico, avevo da poco preso la decisione di smettere con le competizioni di pattinaggio, dopo che la mia partner, Chloe Riley, aveva scelto di appendere i pattini al chiodo. Non avevo voglia di cercare un'altra pattinatrice e ricominciare daccapo tutto il lavoro necessario per una buona sincronia di coppia, così scelsi di allenarmi da solo nel tempo libero, per il solo piacere di continuare a saper fare salti e trottole. 

RESILIENTWhere stories live. Discover now