23- 𝙄𝙣 𝙩𝙝𝙞𝙨 𝙨𝙝𝙞𝙧𝙩 -𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢

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Non riuscivamo mai a vederci da soli. Negli orari di visita previsti in clinica, Jordan veniva a trovare Ellison e io andavo al molo. Per quanto andasse piano in auto, nel tragitto tra il parcheggio e la pista non riuscivamo mai a scambiarci più di qualche parola perché l'infermiera di turno sapeva i miei orari, e se ne stava sull'attenti ad aspettarmi. Continuavano a ribadire che le regole erano regole e che andavano sempre rispettate. Finito l'allenamento con i bambini dovevo tornare in clinica velocemente, per farmi la doccia e arrivare a tavola per la cena allo stesso orario delle altre.

L'unico posto possibile per poter parlare con Jordan in privato era il Pier60. Restava il mio posto felice di Clearwater, quella lunga via di cemento sul mare dove le nostre rotelle avevano sfrecciato fino a farci incontrare e dove non ci eravamo più visti. A suo dire, inizialmente non era più venuto perché voleva lasciarmi libera nella scelta di allenare con lui o meno, ma poi era stato sommerso di lavoro ed erano settimane che non aveva avuto il tempo materiale di andare al molo.

Aveva promesso che, per parlare con me, si sarebbe organizzato con la palestra. Dovevo solo decidere il giorno e l'ora, e si sarebbe presentato.

Quando Florence mi accompagnò al molo senza sapere il mio reale intento di quel pomeriggio, ero agitata. Così agitata che percorsi il Pier60 in tutta la sua lunghezza, senza godermi i suoni delle ruote sul cemento che tanto mi rilassavano. Andavo più veloce del solito, ma riuscii a rallentare quando in lontananza intravidi la sua figura.

Era una giornata di sole, il bollore dei raggi era attenuato da un'aria carezzevole e al molo c'era molta meno gente rispetto a quella cui ero abituata. In lontananza lo vidi: Jordan e ne stava a petto nudo poggiato con gli avambracci alla balaustra, un pattino incrociato all'altro intento a giocherellare sulle ruote. Percepivo un certo nervosismo da parte sua, perché i muscoli della schiena erano visibilmente contratti. Dalle spalle larghe alla vita stretta, sprigionava vigore in ogni linea definita. 

Non appena sentì le rotelle dei miei pattini avvicinarsi, scattò in piedi sfilandosi la maglietta dalla tasca dei pantaloni per indossarla in fretta e furia. Non capivo come fosse possibile vergognarsi di un corpo simile, le cicatrici erano poco visibili perché coperte dai tatuaggi. Bisognava osservarlo bene per capire cosa mascherava tutto quell'inchiostro. Probabilmente, i miei sguardi lo avevano infastidito. 

«Ciao.» Disse facendo sbucare la testa dal colletto della t-shirt, sistemandosi i capelli fintamente scompigliati che erano già perfetti di suo. Si voltò a prendere i due bicchieroni di caffè che non avevo notato quando era di spalle, e me ne porse uno ancora fumante.

«Ho giocato d'anticipo, sapevo che l'avresti voluto.» mi riservò un sorriso e si spostò verso la panchina libera più vicina, invitandomi a sedersi accanto a lui. La prima volta avevamo percorso il molo sui pattini in lungo e in largo ma sentivo che quel giorno c'era qualcosa di diverso nell'aria, e mi sedetti su quella panca in legno deteriorato dalla salsedine a guardare il mare con lui.

«Grazie.» iniziai a sorseggiare il caffè. «Quindi? Come mai hai voluto questo incontro?»

«Così, dritta al punto? Un come stai?»

«Dritta al punto. Dimmi, sto bene.» Non volevo perdere nemmeno un secondo. Ero troppo curiosa.

Si prese un momento per sé, prima di rispondermi: «No. Prima ho bisogno di sapere cosa succede realmente con Audrey a Daytona.»

«Cosa vuoi sapere? Come sono strutturati gli allenamenti?»

«No. Voglio sapere cosa ti succede quando sei stanca e quando sbagli.» Di certo mai mi sarei aspettata domande del genere. Decisamente troppo personali e dai ricordi amari. Voleva farmi fare un tuffo nel passato che non ero certa di voler condividere con lui.

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