16- (𝘿𝙤 𝙣𝙤𝙩) 𝙎𝙪𝙢𝙢𝙤𝙣 𝙩𝙝𝙚 𝙙𝙚𝙫𝙞𝙡 -𝘑𝘰𝘳𝘥𝘢𝘯

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Se c'era qualcosa in grado di darmi la pace era il profumo in cucina a casa dei miei. In particolare, il profumo del sugo comprato in gastronomia che mia madre da anni continuava a spacciare per suo. Anche la sua pasta al forno non scherzava, era l'unica cosa che cucinava divinamente con una gratinatura che rasentava la perfezione.

«Potrei aver fatto una cazzata.» Me ne stavo in cucina dai miei, seduto sullo sgabello dell'isola centrale, dal lato opposto ai fornelli. Era il momento di avvisare il capo di ciò che avevo fatto quel pomeriggio. La donna che mi aveva messo al mondo continuava a mescolare il sugo nel tegame, interrogandosi su cosa potessi mai aver fatto. Aveva un'espressione pensierosa e lo sguardo fisso al manico della padella, finché spalancò gli occhi colpita dall'illuminazione che aveva avuto. Mi puntò subito il mestolo contro con fare inquisitorio.

«Hai messo incinta qualcuna?» I suoi occhi erano ridotti ad una fessura.

«Dio, no.» Nascosi il viso tra le mani, terrorizzato al solo pensiero.

«Che altre cazzate puoi aver combinato?» Riprese a mescolare, come se qualsiasi altra cosa potessi mai aver fatto fosse niente in confronto all'idea di diventare nonna.

«Ho chiesto ad Amelia Reed di aiutarmi con i bambini dell'avviamento.» Niente è peggio di quando tua madre e il capo sono due figure che trovano casa nella stessa persona. In un nanosecondo mi ritrovai di nuovo quel mestolo puntato addosso. 

«Jordan Davis, che cazzo hai fatto?» Quando alzava la voce in quel modo, colorandola con parolacce, voleva dire che la situazione era più grave del previsto.

«Hai capito benissimo.» Ero più che convinto della mia scelta.

«Per piacere. Si tratta di bambini piccoli alle prese con i loro primi passi sui pattini. Davvero hai pensato di chiedere aiuto a una ragazza nata e cresciuta sotto le grinfie di una come Audrey Clark?» Era nera. Gesticolava smodatamente, lasciando fluire il sangue italiano che le scorreva nelle vene.

«Sì.» La lasciai sfogare. Sapevo che quando mia madre si arrabbiava, sparava una raffica di parole che servivano a far chiarezza più a lei che all'interlocutore. «Ho fondato la mia Academy con una filosofia ben precisa: il pattinaggio è un piacere e una passione, non voglio tra di noi nessuno che abbia a che fare con l'agonismo forzato e con metodi di insegnamento che prevedono brutte parole e l'uso della violenza.»

«Dici che è davvero così?» Tutti nel mondo del pattinaggio conoscevano le voci sui metodi del Daytona Skating Center, ma nessuno ne aveva mai dato prova.

«Il fatto che la fantomatica Reed sia finita in stanza con tua sorella la dice lunga.» Non potevo darle torto, ma...

«Magari è semplicemente una vittima del Daytona.» Azzardai.

«Potrà anche essere. Fatto sta che ha imparato a pattinare con delle maniere che sono esattamente il contrario di quelle che voglio per i miei atleti.»

«Dalle una possibilità.» E uno.

«No.» Disse risoluta.

«Invece sì. Se accetta, Amelia Reed mi aiuterà con i bambini. Giuro che la fermo, se la vedo fare qualcosa che non va bene.» E due. Avevo il sentore che di sbagliato non avrebbe fatto proprio niente.

«Ho detto di no. Stop.»

«Non credi che, vista la situazione in cui si trova, sarebbe bello mostrarle l'altro lato del pattinaggio? Potremmo farle vedere una realtà diversa da quella in cui è cresciuta.» E tre.

«Ricordami perché ti ho fatto un faccino così convincente.» Disse in un sospiro. E' fatta, pensai. La vedevo rimuginare tra sé e sé mentre continuava a mescolare il sugo, più come antistress che come reale necessità. «Andata.» Non ne era del tutto convinta, e decisi di andarmene prima che cambiasse idea. «Jordan?»

RESILIENTWhere stories live. Discover now