20- 𝙏𝙞𝙘𝙠 𝙩𝙤𝙘𝙠- 𝘈𝘮𝘦𝘭𝘪𝘢

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Quando mi sedetti in macchina accanto a Tamara ero sfinita. L'adrenalina e l'eccitazione per quella nuova esperienza lasciarono spazio alla stanchezza che salì in un battibaleno, nel preciso istante in cui il mio sedere toccò il sedile del passeggero. L'agitazione che si era impossessata di me nei giorni precedenti all'allenamento svanì non appena chiusi lo sportello e mi abbandonai a un sospiro di stanchezza. Avevo le braccia indolenzite dopo aver fatto volteggiare tutti quei bambini. Il cuore strabordava delle loro emozioni e del brivido dato da quella spirale fatta con Jordan.

«Scommetto che stasera non riusciresti a scappare per andare in discoteca.» Disse Tamara vedendomi in quelle condizioni.

«Dipende. Se dormi, potrei stupirti.» Non ero stanca per un po' di sarcasmo.

«Ti dice male, cara: c'è Lorelai in turno stanotte.» Mi avvisò.

«Allora sì, mi fiondo sotto le coperte e ci resto finché Elly domani mi sveglia.» Non sarei uscita lo stesso, ma ormai della nostra bravata ne ridevamo entrambe. Lei nel dormire, noi nello scappare, tutte avevamo capito i nostri errori. Una volta ammessi e con la promessa di non rifarli, avevamo iniziato a ricordare i fatti in chiave ironica.

Nella via del ritorno al Fairwinds me ne stetti tutto il tempo con il gomito appoggiato al piccolo portaoggetti nella portiera e lasciai la testa a ciondolare in equilibrio precario tra la mia mano e il finestrino. Guardavo le persone che rincasavano con la busta della spesa, altre che portavano a spasso i cani, coppiette mano nella mano. Finché, alla mia destra, li vidi: un sacco di ragazzi con lo zaino in spalla e libri sotto al braccio, giacche sbottonate, palloni da basket in mano, skateboard. Stavano uscendo dalle porte principali di un istituto dalle grandi vetrate, e nemmeno il tempo di ragionare su cosa fosse quella struttura imponente che notai un cartello blu che riportava delle scritte bianche: St. Petersburg College.

Dovevo considerarlo un segno? Era dalla prima pattinata al molo che nel mio piccolo rimuginavo sulla scelta di frequentare una scuola ordinaria in mezzo a gente normale. Non che fossi ingrata nei confronti del Daytona Skating Academy per avermi dato la possibilità di studiare privatamente permettendomi così di allenarmi per tutte quelle ore, ma Jordan quel giorno mi aveva detto che c'era una vita fuori dal palazzetto. Me lo aveva confermato alla congiunzione astrale. Avevo iniziato a bramarla dopo aver ascoltato i vissuti delle ragazze in clinica. 

I miei coetanei uscivano, si divertivano, interagivano tra loro, passeggiavano, ballavano, si ubriacavano.

Io pattinavo.

E basta.

Volevo scoprire il mondo. Quel pezzetto di vita che stavo perdendo e che mi reclamava a gran voce.

Quando rientrai fui travolta dal pot-pourrì della clinica. Mi venne dato giusto il tempo di farmi una doccia rigenerante. Poi fui investita dalla raffica di domande di Elly e Lisa. Vollero sapere tutto quel che era successo in pista. Raccontai loro più dettagli possibile, dalla gioia dei bambini, alla spirale con Jordan, a Martina che aveva abbattuto ogni muro per accogliermi a braccia aperte e offrirmi un primo lavoretto. Raccontai tutto quel che successe in pista, ma non raccontai del mio appuntamento in programma per una data ancora inesistente. 

Non raccontai nulla per il fatto che Jordan era di immonda bellezza e aveva sicuramente una schiera di ragazze che gli sbavavano dietro. Una buona parte le avevo viste alle gare quando gli chiedevano autografi aspettando che i più piccoli se ne andassero per lasciar spazio alle loro moine ammiccanti. L'avevo capito il suo interesse nei miei confronti. Ma chi mi assicurava che non fossi solo una casella da spuntare in una wishlist di ragazze da farsi? Kevin ce l'aveva, teneva traccia di ogni scopata con ogni ragazza diversa. Anche i protagonisti dei miei libri se ne passavano tante. Chi l'avrebbe voluta in modo serio poi, una ragazza rotta in uscita dalla psichiatria?

RESILIENTWhere stories live. Discover now