I. Un po' di freddo (certo male non fa) - Parte 2

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          Quando escono dalla palazzina di Gigliolo, il sole è ormai quasi al suo picco e irradia un piacevole calore, stemperando il vento di tramontana ancora tagliente.

Ricciardi cammina in coda a Bruno e Maione, che parlottano tra loro mentre attraversano il piccolo cortile esterno, diretti all'auto parcheggiata a bordo del marciapiede. Un paio di domestici seguono il loro passaggio con occhi angosciati.

Ricciardi ha già in programma di convocare tutti in Questura entro quel pomeriggio, dopo una prima rassegna di domande piuttosto infruttuosa. Gigliolo non sembra essere stato tirannico né particolarmente prodigo di lodi, ma comunque benvoluto; che è molto più di quanto si possa sperare negli ambienti degli alti gradi militari. È conscio che il modo familiare in cui lui trattava Rosa, prima, e Nelide, adesso, è affatto conforme a quanto accade nella maggior parte delle case più abbienti nei confronti della servitù.

Lo vede più di quanto voglia, quando si trova a parlare con domestici che gli si rivolgono quasi con riverenza, o con un misto d'ansia e circospezione dettato solo in parte dal suo ruolo di commissario che indaga su un crimine. È il timore di chi sa che una singola parola sbagliata può sempre costargli la paga, o il posto.

Non è ciò che ha visto stavolta e, sebbene non basti a sollevare dai sospetti nessuno che fosse al servizio di Gigliolo, lo indirizza più verso l'esterno di quelle mura, che verso l'interno. Un estraneo, che però pareva conoscere bene Gigliolo, o quantomeno le sue abitudini.

«Tu... che ci fai qui? Come hai fatto a entrare?»

Aveva riconosciuto l'intruso, questo gli è lampante, ma...

«Ohi, Riccia',» Bruno gli rifila un colpetto sul gomito, «sei tra noi?»

Lui si riscuote e fissa interrogativo prima lui e poi Maione, che lo fissano di rimando.

«Ti stavo per chiedere se ti va di fare una deviazione, prima di rientrare,» ripete il medico, sbuffando una nuvoletta di fumo dal sigaro.

«Una "deviazione", qui?» interviene Maione, perplesso. «E dove? Alle ville dei nobili? Senza offesa, commissa',» aggiunge in fretta, e Ricciardi alza appena le spalle, indifferente.

«Ma fatemi il piacere, brigadie'. Intendevo al "Nuovo Ospedale Moderno", o "23 Aprile", o come accidenti vogliono chiamarlo per dar lustro alla patria o che so io.»

Gesticola nella sua direzione generica, verso la Collina dei Cangiani ancora bloccata tra campagna e città, prima di guardare di nuovo lui, che si limita a sospirare sottovoce. Non che gli dispiaccia accompagnarlo, ma ha già un caso tra capo e collo e una sfilza di testimoni e sospetti da interrogare.

«Non hai un cadavere da esaminare?» gli fa notare, con un cenno verso i due poliziotti che li superano in quel mentre, portando una barella vuota.

«Il morto mica ci scappa,» gli fa il verso lui, «e poi, in teoria, non sono di turno fino a domattina. Vedi? Mi scocci pure nel giorno libero,» lo accusa, puntandogli contro il sigaro acceso.

«E te ne vuoi andare per ospedali pure nel giorno libero?» lo canzona lui, stavolta con un mezzo sorriso.

Quell'osservazione suscita un'espressione buffa sul volto del medico: un lieve sgranar d'occhi molto simile all'imbarazzo, come non avesse nemmeno pensato a quel dettaglio e si sentisse colto in fallo.

«Vabbuò, mica sei obbligato a scortarmi, vado pure da-»

«Maione, riporta tu l'auto in Questura,» lo interrompe lui, dando un'occhiata all'orologio da polso che segna ormai mezzogiorno passato. «Il dottor Modo e io ce ne andiamo per ospedali.»

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