III. La più grande libertà (è quella che ci tiene in catene) - Parte 1

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          A Ricciardi è sufficiente uno sguardo, per capire che non può essere stata Caterina Gigliolo ad assassinare di propria mano suo marito.

«Prego, accomodatevi,» la invita non appena schiude la porta. «Sono il commissario Ricciardi, lui è il brigadiere Maione. Condoglianze per la vostra perdita.»

«Grazie, commissario.»

La sua voce è sottile quanto la sua figura, quasi inghiottita dal sobrio abito scuro in viscosa che accentua il pallore del suo volto; una croce d'argento spicca al suo collo.

Porta i fini capelli biondo cenere raccolti in una crocchia, tenuta ferma da una retina di perle, e le mani magre sono fasciate da guanti neri di velluto a mezzo braccio. La veletta nasconde in parte i suoi occhi, che brillano comunque di un nocciola intenso, quasi dorato. È l'unico dettaglio del suo aspetto a non sembrare opaco, riflesso di una forza e bellezza che sta rapidamente sfiorendo.

Ricciardi, d'istinto, non ha dubbi sul fatto che quella manifestazione impeccabile di lutto corrisponda a realtà. Caterina Gigliolo sembra smarrita, a dire il vero. I suoi occhi vagano incerti sul perimetro dell'ufficio, ed esita qualche istante prima di approcciarsi alla sedia di fronte alla scrivania e sedersi con gesti lenti, quasi temesse di rompersi nell'atto.

Maione fa il gesto di aiutarla, ma lei si limita a scuotere piano il capo, con un sorriso impercettibile.

«Grazie, brigadiere, ce la faccio. Sono ormai abituata.»

«Spero che il viaggio non sia stato troppo stancante,» dice Ricciardi, sentendosi suo malgrado in difetto. «Quando vi ho fatta convocare, non ero a conoscenza delle vostre condizioni di salute, né che foste a Roma.»

«È stato assai stancante, ma sarei venuta immediatamente a Napoli, convocazione ufficiale o meno,» replica lei, stringendo le mani sulla piccola borsetta nera che ha posato in grembo.

C'è un che di melodioso e potente, nella sua voce. Anche se debilitata, in lei sembra albergare ancora la verve di chi era abituato a calcare un palco gremito di folla nella capitale, ammaliandolo con la sola voce. Deve avere una decina d'anni in più di Livia, ma non gli riesce difficile immaginarle come colleghe cantanti.

Con gli occhi, dà un segnale a Maione, in piedi accanto alla scrivania, e il brigadiere è pronto a prendere le redini dell'interrogatorio:

«Ci perdonerete se passiamo subito al dunque, signora, così da non affaticarvi troppo,» esordisce, con impeccabile cordialità. «Voi eravate a conoscenza di qualsivoglia inimicizia o antipatia nei confronti di vostro marito?»

La donna stringe le labbra, guardando entrambi in rapida successione.

«Credevo si trattasse di una semplice rapina.»

«Stiamo vagliando tutte le possibilità,» interviene Ricciardi, osservando la sua reazione.

Non vi scorge allarme, solo tenue stupore.

«Comprendo perché sono stata convocata, allora,» commenta però, con improvvisa energia.

«Signora, noi siamo tenuti a interrogare chiunque avesse un legame rilevante con la vittima,» s'intromette Maione, pacato come suo solito, ma con una punta di durezza. «Voi, essendone la moglie, rientrate senz'ombra di dubbio tra questi.»

Lei ammutolisce, gli occhi inquieti che oscillano tra loro due. Ricciardi riflette un momento, prima di decidersi a scoprire le carte; almeno, alcune:

«Non siete sospettata, al momento; sia perché avete un alibi, visto che non eravate a Napoli, sia date le modalità dell'omicidio.» A giudicare dalla sua reazione nervosa, è certo che anche la donna sia consapevole che ciò non la esenti da una partecipazione diretta al crimine. «Tuttavia, come diceva il brigadiere, ho comunque l'obbligo di porvi delle domande per fare chiarezza su questo delitto.»

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