II. La nostra buona stella (è la peggiore tra le luci) - Parte 2

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         Ricciardi varca la soglia della Questura a piè sospinto, in ritardo rispetto al suo solito. S'è addormentato verso le quattro di mattina, e solo per un paio d'ore, perseguitato dalla voce fantasma. Non è emicrania, quella che gli sbatacchia il cervello: è un maglio che gli batte attraverso il cranio dall'interno, il cui contraccolpo riverbera sullo zigomo ora gonfio e dolente.

Saluta affrettato Camarda, che incrocia sulle scale. Coglie il suo moto di sorpresa, che rallenta il movimento della sua mano alla fronte nel guardarlo in volto.

«Commissario...» quasi balbetta, per poi ricomporsi. «Nel vostro ufficio c'è una signora che vi attende.»

«Lo so, Camarda, grazie,» si lancia alle spalle, ormai avvezzo alla poca accuratezza dell'agente.

Finisce di salire i gradini a due a due e rallenta un poco in corridoio per non presentarsi sfatto e affannato alla vedova Gigliolo. Si ravvia i capelli e si rassetta la cravatta; per il viso non può far nulla, se non comportarsi in modo disinvolto. Spinge la porta del suo ufficio e il "buongiorno" che si era preparato gli muore sulle labbra. La donna che trova seduta ad aspettarlo non è decisamente Caterina Gigliolo.

«Livia.»

«Ricciardi,» ricambia lei, un lieve sorriso a incurvarle le labbra; si incrina nel fissarlo in volto, ma non aggiunge altro.

La sua figura elegante, fasciata da un abito fantasia dai toni caldi, stona in quell'ufficio così austero, di marmi freddi e legni massicci. Porta i capelli acconciati come sempre in rigide onde modellate, tenute al loro posto da forcine, e un velo di carminio esalta le sue labbra piene. In lei si evince senza difficoltà quel manierismo lievemente affettato e innascondibile di chi è cresciuto tra i salotti d'alto borgo romani: dal modo composto ma non rigido in cui siede, alla spilla floreale che spicca vezzosa sul bavero del cappotto.

Ricciardi esita sulla soglia, col palmo ancora incollato alla maniglia. Nota che Maione non è alla sua scrivania, e serra appena la presa sul metallo. Sa che il brigadiere pensa di avergli fatto un favore, a garantirgli riservatezza con Livia, e dovrebbe essergliene grato; invece, si sente immotivatamente tradito.

Chiude infine la porta e tentenna ancora, indeciso tra l'atto di un baciamano o di un saluto più freddo. Opta infine per temporeggiare e si toglie prima il soprabito, appendendolo all'attaccapanni e voltando per pochi istanti le spalle a Livia. Stringe la stoffa tra le dita, domando il pulsare alla testa e il moto d'indescrivibile disagio che gli si arrampica su per la schiena.

Non la vede dalla notte dell'arresto di Bruno da parte dei fascisti, mesi fa, quando si è presentato da lei in cerca d'aiuto, sebbene non lo meritasse dopo averla rifiutata. Non la vede da quando l'ha implorata di intercedere con l'enigmatico uomo dell'OVRA che la sorveglia per salvare l'amico dal confino. Non la vede da quando le ha rivelato, in un moto di pura dissennatezza, che il suo disinteresse sentimentale per lei è strettamente collegato alla disperazione in cui l'aveva gettato l'arresto del medico.

Non sa cosa aspettarsi da lei, per il semplice fatto che, in verità, non si era aspettato nemmeno di rivederla dopo quei fatti. Livia avrebbe ogni ragione di voler fingere che lui non esista; di fingere che sia morto assieme al suo segreto che, forse, è pure più esecrabile del vedere i morti.

Sa, però, che non l'ha tradito, o avrebbe ricevuto da tempo la visita della polizia segreta per essere portato in prigione o in un istituto psichiatrico. E questo, per lui, è già una prova di fiducia sufficiente.

Si avvicina a lei, che lo trae d'impaccio offrendogli il polso reclinato; Ricciardi ottempera in un moto automatico, prendendole la mano, chinandosi e frenando le labbra a una distanza nettamente superiore a quanto imporrebbe il galateo. Quella comunicazione silenziosa gli sembra esaustiva da parte di entrambi: lei non è qui per serbare rancore e lui non ha intenzione di dimostrarsi oltremodo distaccato, né in eccessiva intimità.

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