II. La nostra buona stella (è la peggiore tra le luci) - Parte 1

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          Quella morsa che gli artiglia la nuca, come le dita gelide di un morente che si aggrappa alla vita, Ricciardi la conosce bene. È la stessa che avverte quando passeggia per strada e che lo fa voltare, seguendo quel filo teso da qualcosa a cui non saprebbe dare altro nome se non "maledizione".

Ogni volta che accade, si ritrova a fissare gli occhi di un fantasma che lo scrutano da un vicolo, o da un androne, o in mezzo alla folla stessa. Figure evanescenti che si confonderebbero coi vivi, se non per lo sguardo vitreo e il sangue che a volte li macchia.

Quegli incontri, prima sporadici nella solitudine del Cilento, sono diventati la sua quotidianità da quando in gioventù si è trasferito a Napoli, così densa di persone e, pertanto, di morte. Sono passati anni e anni, eppure, non vi si è mai abituato. 

Anzi, si stupisce di quando gli spettri paiono nascondersi per un poco alla sua vista. Sono giorni strani, quelli, in cui si sentirebbe quasi un uomo normale, non fosse per l'angoscia che scaturisce da quella che può solo essere un'effimera tregua destinata ad avere una fine.

Tuttavia, se nell'avvertire lo sguardo di un morto appuntato sulla schiena, o nel cogliere le sue parole nel mormorio delle strade v'è comunque un che di spiacevolmente usuale, nulla lo prepara al provare quella sensazione in casa propria, coricato a letto, nel cuore della notte. 

Sa che non sta sognando e sa che non sono semplici ricordi troppo vividi; o dovrebbe prendere in considerazione la possibilità d'esser infine uscito di senno.

Parole indistinte e sussurrate, poco più di un refolo di vento, gli sfiorano di nuovo i timpani, reali quanto è reale la stoffa del lenzuolo che sta strangolando tra i palmi.

Il suo sguardo scatta qua e là nella stanza, più simile a quello di un animale braccato da un fucile che di un commissario di polizia in cerca di un indizio. Non vede alcuna sagoma spettrale, né il tremolio nell'aria che a volte le tradisce, simile a quello sopra una stufa accesa.

Tende l'orecchio, udendo solo il proprio cuore che batte furioso sotto la lingua. La voce, una litania incessante, sembra originare da ogni luogo e da nessuno al contempo. D'istinto, però, le sue pupille corrono verso un angolo, quello più vicino alla finestra.

Non c'è nulla, lì, se non il buio.

Si tira su a sedere, domando il tremito che lo scuote, coi capelli sfatti incollati alla fronte madida, freddata dal gelo notturno. Quella sensazione d'angoscia gli è estranea. Non è avvezzo ad aver paura dei morti, poiché non potrebbero fargli del male nemmeno volendo. 

Ciò che risvegliano in lui è un impulso più profondo, legato a doppio filo al senso di immane incombenza che gli causa vederli; quello del dovere, dell'obbligo morale che gli impedisce di voltarsi dall'altra parte. 

Laddove c'è un fantasma, c'è sempre un fatto di sangue; e c'è sofferenza umana, ancora viva e tangibile in chi morto non è, di chi dalla morte viene investito o ne è artefice. Che ciò sia accaduto lì, così vicino all'intimità della propria casa, lo fa sentire vulnerabile.

Con lentezza, porta le gambe oltre il bordo del letto, orecchie e tendini tesi fino allo spasmo. Sfiora il pavimento gelido con la punta dei piedi, in attesa, con mille aghi che gli risalgono le gambe. Forse, è stato davvero solo un sogno, un parto del suo dormiveglia inquieto.

Senza indugio, però, la voce si ripete: un andamento lugubre di suoni, una frase criptica e impossibilmente melodiosa quanto una marcia funebre suonata dal fondo di un pozzo.

Ricciardi fa leva per alzarsi, in un cigolio di molle del materasso che pare assordante. Si scosta i capelli dal volto, il respiro un poco più regolare. Se qualcuno è morto lì, quella notte, non è certo nella sua camera, o l'avrebbe già visto o udito in maniera molto più chiara; per quanto sia un'ipotesi folle già in partenza.

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