X. Ci vuole coraggio (anche per aver paura) - Parte 2

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          Beniamino Iannello ha esattamente l'espressione che ci si aspetterebbe di vedere sul volto di un uomo arrestato per omicidio: angustiata, fitta d'ombre violacee per l'insonnia e dello stesso colore di uno straccio maltrattato.

Dimostra molto più dei ventinove anni che dice di avere. Nell'ambiente umido e attufato della cella, appare ancor più smorto, gli angoli del corpo accentuati dalla sua posizione ripiegata, seduto sulla branda coi polsi poggiati sulle ginocchia ossute.

Alza di scatto gli occhi di un verde-marrone al cigolio della porta che si apre e, nel vedere lui, prima, e il brigadiere subito dietro, porta una mano a sorreggersi la fronte, ravviandosi le ciocche scomposte di capelli rossicci, alzati in ciuffi sulle tempie.

A vederlo, così mezzo rannicchiato nella penombra, col volto appuntito e il naso pronunciato, gli occhi schivi e sospettosi, sembra una volpe presa in una tagliola. Lo sente trattenere un sospiro esausto: Ricciardi si chiede quante volte lo abbiano già interrogato, e in che modo, anche se non gli sembra di vedere segni di violenza.

Lancia una rapida occhiata alla cella, una stanza quadrata e asfittica con a malapena posto per una brandina e un secchio nell'angolo. Una finestrella a livello con la strada lascia passare qualche filo di luce grigiastra, assieme a volute di polvere che rilucono nella luce stentata che filtra dalla coltre di nubi plumbea.

Non l'ha fatto portare nella stanza interrogatori apposita, preferendo parlargli in una parvenza di riservatezza, anche se il secondino origlia di certo oltre la finestrella blindata. Non ha incontrato resistenze, su quel punto: dall'alzare di sopracciglia complice che gli ha rivolto la guardia penitenziaria, corredato da un occhiolino affatto discreto, forse pensano che vogliano "calcare la mano" con l'arrestato senza sguardi molesti addosso.

Il pensiero di venir scambiato per uno di loro lo rivolta, ma non è il momento per dar peso alle apparenze e ha fatto buon viso a cattivo gioco.

«Signor Iannello?» esordisce, con voce ferma ma non troppo alta.

Lui annuisce e basta, coprendosi gli occhi con la mano. Indossa dei vestiti da viaggio, nota Ricciardi, con scarpe robuste, spessi pantaloni da lavoro e una camicia di flanella col fazzoletto al collo. Che fosse in procinto di partire gli sembra indubbio.

«Sono il commissario Ricciardi,» si presenta poi, in tono conciliante, «il mio collega è il brigadiere Maione. Siamo qui per ascoltarvi.»

«Lo immaginavo,» risponde lui, con voce profonda che cozza col suo aspetto mingherlino.

Pare non notare la scelta della parola "ascoltare" rispetto a "interrogare", forse per la stanchezza accumulata dai giorni di attesa disagevole al porto e, poi, per la mezza nottata passata in quella cella.

«Commissario, sono ancora accusato di omicidio?» chiede poi, sollevando lo sguardo con lentezza, quasi conoscesse la risposta alla domanda, ma la temesse egualmente.

Ricciardi nota che parla solo con una lieve inflessione dialettale; forse non è nemmeno di Napoli. Anche alla guardiola ha visto che ha compilato e firmato di suo pugno i documenti d'attestazione d'identità. Deve avere almeno il diploma delle elementari, e gli viene spontaneo chiedersi come sia piombato in quella miseria così nera.

«Temo di sì,» risponde poi, serrando un polso dietro la schiena, in piedi dinanzi a lui.

Iannello non dà segno di volersi alzare e fa piombare di nuovo il capo in avanti con un mormorio incomprensibile, al colmo della prostrazione. Ricciardi lo osserva per quasi un minuto intero, a fugare ogni dubbio.

La sua corporatura ossuta dovrebbe fornire tutte le risposte che servono: per ammazzare Gigliolo non lo avrebbe certo scaraventato su un tavolo, anche se le braccia nervose suggeriscono una certa forza, forse a causa di ripetuti lavori manuali. Pare anche abbastanza scattante e agile da potersi infilare in scioltezza in un cunicolo sotterraneo.

La Ruota degli AngeliWhere stories live. Discover now