VII. Paese reale (di sudditi e re) - Parte 1

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          «Terribile, terribile.»

Don Pierino scuote la testa, con la berretta che minaccia di capitolar giù dal capo calvo e le guance tremule per l'indignazione. Stringe al petto un breviario consunto, con ancora un indice adunco a tenere il segno, e si agita sul posto facendo oscillare il lungo talare viola, in un moto continuo che lo fa sembrare una buffa campanula bistrattata dal vento.

«Terribile, sì,» concorda Ricciardi, «ma non sono venuto qui per parlarvi di questo, Padre, anche se non mi stupisce che la notizia si sia già sparsa.»

«Ma come? Non state investigando su quella povera creatura?»

Il prete pare sul punto di scomunicarlo seduta stante, dal modo in cui strabuzza gli occhi e inarca le sopracciglia rade, e la sua voce rimbomba più squillante sotto le alte volte di San Raffaele, attirandosi le occhiate di qualche orante mattutino.

«Ovviamente,» lo placa lui, facendogli cenno di spostarsi verso una delle cappelle laterali alla navata. «Ma ho dei doveri di commissario a cui ottemperare rispetto a un altro caso, prima.» Don Pierino sembra assai poco soddisfatto della risposta, almeno finché Ricciardi non si affretta a integrarla: «Ciò non vuol dire che voi non possiate essermi d'aiuto su entrambi i fronti. Anzi, a esser sincero, ci speravo.»

Il reverendo si raddrizza, rimanendo comunque lievemente ingobbito, le mani giunte sul libretto. Assomiglia più a un soldato armato di baionetta che un uomo di chiesa, a vederlo così.

«Credevo foste venuto qui per un consulto spirituale, per placare l'anima dopo questo evento sciagurato. Se posso aiutarvi anche in altro modo, però, non posso che esserne felice. Ditemi pure, commissario.»

Ricciardi sorride appena, grato. Non si considera un credente, ma parlare con un uomo arguto, energico e paradossalmente poco clericale come Don Pierino tende a schiarirgli le idee e a fargli ritrovare il filo dei propri pensieri, quando lo perde.

«Il nome di Fernando Gigliolo vi suona familiare? Pare fosse un contribuente piuttosto attivo nella carità ecclesiastica.»

Don Pierino si ferma presso una delle cappelle, sotto lo sguardo mite di una statua di Santa Rita, illuminata da un fascio di luce in cui danza pulviscolo dorato. Riflette ancora un poco, prima di rispondere:

«Non posso dire di conoscerlo in senso stretto,» premette, con le dita che tamburellano lungo la croce dorata sul suo breviario. «Però, sì, il nome Gigliolo mi è arrivato, di tanto in tanto; e deve essere un filantropo assai attivo, per arrivarmi. Sapete che non ho rapporti molto stretti coi miei fratelli del clero,» aggiunge a mo' di scusa e con una punta di fierezza malcelata.

Ricciardi stira le labbra a quel commento: è dallo scalpore dei Patti Lateranensi, che l'uomo ha di molto rarefatto i propri rapporti diretti con la diocesi di Napoli, dicendo che non gli piaceva prender parte ai giochi di potere, per quanto favorevoli. Non è una posizione semplice da mantenere, ma Don Pierino non retrocede di un passo su quel punto, e ciò non può che accattivarsi la sua stima.

«Non sapreste fornirmi alcun dettaglio in più?» chiede comunque, guardando un po' lui, un po' la chiesa semivuota. «Per esempio, per quali istituzioni facesse beneficenza?»

«No, non saprei dirvi con certezza, commissario. Non era un membro della mia parrocchia, dopotutto, e qui a Napoli c'è l'imbarazzo della scelta.»

«Però, sembra che avesse particolarmente a cuore gli orfani e gli invalidi di guerra.»

Don Pierino sospira, concentrandosi. Ricciardi attende, sulle spine, le dita che sfilacciano al solito l'interno delle tasche.

«Per gli invalidi, credo avreste più successo nel chiedere a qualche funzionario, che a un uomo di chiesa, visto che pare sia di loro esclusiva competenza lasciarli all'incuria,» dice, con pungente brio. «Per gli orfani, avete buone possibilità chiedendo ai Turchini o alla Real Casa dell'Annunziata, per cominciare. Di solito, i grossi donatori si rivolgono a loro, anche per mettersi in contatto con congregazioni minori.»

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