V. La luce delle lanterne (e quella delle lampare) - Parte 2

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          Una volta, quando era poco più di un ragazzo e stava tentando di capire cosa fare della sua vita, mentre i boati della guerra iniziavano appena a scemare, a Ricciardi è capitato di posare lo sguardo su un dipinto che, tutt'ora, gli è rimasto impresso nella mente come una fotografia.

In verità, non ne ricorda nel dettaglio il soggetto, né cosa dovesse rappresentare. Ciò che si è sedimentato nella sua memoria, però, sono le ombre nette, i contrasti di bianchi e colori caldi degli edifici che quasi facevano male allo sguardo e il rincorrersi di linee diritte che sembravano perdersi in punti di fuga illogici.

Gli unici particolari nitidi che gli sovvengono sono due. Uno era la sagoma di qualcuno che corre in primo piano; un bambino, forse, dai tratti indistinguibili, che pareva minuscolo in confronto agli edifici e schiacciato dalla loro mole, in corsa verso un orizzonte di un azzurro carico e impossibile. E un'ombra, un'ombra lunga e minacciosa che sporgeva come inchiostro liquido oltre un muro, sul tragitto del bambino.

Non rammenta altro, se non la sensazione di profonda, inquieta solitudine, eppure di estrema vicinanza e rispecchiamento, che gli aveva infuso quel quadro. Era rimasto a guardarlo a lungo, nella collezione d'arte di un qualche nobile francese in cui era capitato durante un ricevimento, appena diciottenne.

Adesso, mentre imbocca quasi in corsa la viuzza di casa propria, per un istante gli torna in mente, sovrapposto a ciò che vede come un dagherrotipo sbiadito.

Le palazzine incombono su di lui, illuminate in modo violento dai lampioni, che formano ombre dense a tagliare la strada; il punto di fuga in fondo alla via sembra sbagliato, distorto dalle luci artificiali che gettano aloni giallastri tutt'intorno. Vi è un senso di calma sospesa, di grave immobilità che sembra sprofondare a poco a poco sulle case e sugli uomini.

Come tanti anni fa, pensa che quel mondo, apparentemente in grado di piegare i principi della fisica e della prospettiva, non è poi dissimile dal proprio, quello in cui vede i morti. In entrambi i casi, vi sono delle leggi naturali che si spezzano e torcono; eppure, entrambi quei mondi esistono, nella loro impossibilità, anche se uno solo su tela e l'altro solo nei suoi occhi. Esistono e si sovrappongono, camminando fianco a fianco tra la gente. Esiste lui che corre incontro ai fantasmi, così come il bambino corre incontro all'ombra in agguato.

Quell'istante di straniamento si incrina come un vetro scheggiato quando sente levarsi la voce di Maione, un sussurro gridato nella notte:

«Commissa'!»

Con Bruno che lo tallona, Ricciardi si ferma di fronte al brigadiere, che è paonazzo in volto e ha mancato di allacciare un bottone della divisa nella fretta di indossarla. Alla cintura, porta agganciata una vecchia lanterna a petrolio.

«Maio', mano male che sei già qui,» lo saluta, senza nascondere il sollievo.

«E che pensavate, che venivo qui a spassiare?» ribatte lui, suonando offeso.

«Buonasera, brigadiere,» dice Bruno, con una flemma fuori luogo che Maione asseconda:

«A voi, dottore esimio.»

Prima che Ricciardi possa troncare i convenevoli, Bruno lo anticipa:

«Vorrei dire che è un piacere non vedervi sulla scena di un delitto, una volta tanto... ma non vorrei sbilanciarmi troppo, visto che il qui presente commissario non si degna di spiegarsi.»

«Nelide dov'è?» lo ignora Ricciardi, con un picco d'apprensione.

Maione punta un indice verso l'alto e lui la scorge solo ora affacciata alla finestra, imbacuccata in una stola, che scruta la strada come un gargouille indispettito.

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