XI. Apriti cielo (e manda un po' di sole) - Parte 1

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          Annina è morta là sotto perché stava venendo a cercare lui.

Ricciardi, quella consapevolezza, la sente squarciargli la schiena come una spada di Damocle infine precipitata a trafiggerlo. Continua tutt'ora a non conoscere i meccanismi che regolano la sua maledizione e continua a pentirsi di non aver chiesto lumi a sua madre quando ancora poteva; ma sa una sola cosa per certa, con una nitidezza che gli rende difficile respirare.

I morti che ha visto finora erano sconosciuti, fantasmi capitati sul suo cammino casualmente o per via di un delitto che era chiamato a risolvere. Estranei che erano stati meri passanti nella sua esistenza, entrati e usciti da essa con la fuggevolezza di un colpo di vento gelido che, infine, lascia posto al tepore del sole, sebbene solo per un tempo limitato.

Anche Annina era per lui una sconosciuta, l'ennesima vittima su cui sono inciampati i suoi passi in quella gelida notte. Solo che Annina cercava proprio lui, pur non conoscendolo. Ed era morta prima di riuscire a raggiungerlo, con l'ultimo pensiero lanciato verso quel "commissario perbene" di cui aveva solo sentito parlare e che poteva rappresentare la sua unica salvezza.

Così non era stato; qualcuno l'aveva stroncata prima, quella richiesta d'aiuto; l'aveva messa a tacere e aveva lasciato lei a marcire sottoterra come un qualcosa di rotto e inutile.

Eppure, la sua voce l'aveva raggiunto egualmente, con potenza e tenacia inusitate, travalicando spazi e confini come un qualcosa di ancora vivo e dotato di volontà; perché cercava lui, Annina, e a lui si era aggrappata in un ultimo anelito, perché era l'unico che potesse sentirla e l'unico che, anche nella morte, avrebbe comunque potuto aiutarla.

Lo scuote un tremito; di rabbia, di senso di colpa nauseante, di odio cieco per la maledizione che si porta abbarbicata addosso come filo spinato. Annina cercava lui ed è perita nel farlo; ma alla fine l'ha trovato lo stesso.

Se prima si sentiva in dovere di farle giustizia, se vi era una sparuta traccia di egoismo nel voler dar requie a quel fantasma la cui voce gli si insinuava in casa propria e nel cranio dalle viscere della terra, adesso è solo conscio di avere un debito concreto verso di lei.

Gli si smuove qualcosa di oscuro nel petto, a quella consapevolezza. Gratta e stride contro le costole e che gli irrigidisce i pugni e la mascella in morse ferree. Non si è mai ritenuto un uomo violento, ma il pensiero di mettere le mani addosso a quel Munaciello gli provoca un moto di feroce soddisfazione, d'ira animale che gli strattona i muscoli con impulsi bassi che ha sempre ripudiato.

Si obbliga a trarre una serie di respiri profondi, sentendosi accaldato in viso e in corpo, incapace di star fermo e oscillando così nervoso sul posto, all'ombra dell'arco dell'Annunziata. Non può farsi giustizia da solo; non è per questo che è diventato commissario di polizia.

Deve quietarsi, o finirà per compiere un passo falso. Il pensiero di avere pure l'OVRA che guata ogni sua mossa non migliora il suo stato d'animo, ma è un ottimo incentivo a calmare ogni sregolatezza. Deve comunque prima trovarlo, questo Munaciello, e non lo troverà certo cedendo a una cieca collera.

Si ravvia i capelli, tirandoli un po' troppo forte e lasciando poi scivolare la mano sul collo ancora dolente e irrigidito. Tasta con cautela la contusione, avvertendo fitte sorde e latenti: un altro ottimo memento rispetto al doversi muovere in punta di piedi, ora che ha forse in mano il bandolo della matassa.

Rivede ancora, a tratti, il volto odioso di Falco che torreggia su di lui, a dispetto della sua stazza affatto imponente. Nelle sue narici ristagna il fetore della strada che gli hanno impresso addosso. Serra la mandibola. L'hanno insultato e umiliato, ma non è quello il dettaglio su cui si impiglia suo malgrado da quella mattina.

La Ruota degli AngeliWhere stories live. Discover now