XIII. Il lupo è il pastore (e gli uomini il gregge) - Parte 3

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          Benché il sole marzolino scaldi il basolato con un timido accenno di primavera, Ricciardi ha l'impressione di immettere acqua ghiacciata nei polmoni, quando mette piede fuori dalle spesse mura dell'Annunziata.

Lo fa con foga inusitata, senza nemmeno trattenere il pesante portone per agevolare il passaggio a Maione e alla vedova Gigliolo subito dietro di sé. Gli tremano le mani e trattiene il vizio di agitarle, di arricciare inquieto le falangi contro il palmo, di premersi il pollice sulle nocche fino a sentirle cigolare.

Le àncora quindi nelle tasche del soprabito, dove le sue dita trovano i fili allentati delle cuciture, e li avvolge sugli stessi solchi doloranti e non del tutto rimarginati che si è inflitto ieri sui polpastrelli, rischiando di riaprirli.

Il suo sguardo irrequieto si appunta sul quadrato azzurro striato da stracci di nubi sopra di lui, in uno specchio più vivo delle volte affrescate a guisa d'un vero cielo dentro la Real Casa; poi, sulla fontana centrale, che gorgoglia in flutti instancabili a ritmo col ribollire della sua mente. Gli sfrecciano in testa in immagini caleidoscopiche, dilaniando ogni pensiero di senso compiuto.

Gli occhi limpidi ma tristi di Arturo Esposito, così simili a quelli di Annina, impressi in tonalità bigie sulla carta fotografica. La sagoma torreggiante di Don Nicola: lo zoppo, lo sciancato, al contempo temuto e amato dagli orfani e dagli scugnizzi. Il Munaciello, quella figura enigmatica che, da bislacco racconto popolare, ha ormai assunto contorni demoniaci.

E Annina. Annina Esposito che grida sottoterra.

«Va' via, Munaciello! Non mi fai paura. Non mi fai paura!»

Nitido, nell'occhio della sua memoria, emerge un singolo dettaglio di quella foto, un dettaglio che gli fa coagulare il sangue nelle vene e gli spinge la lingua contro il palato per la nausea: la mano tozza, nerboruta di Arturo Esposito poggiata con indolenza una spanna sopra il capo di Annina.

«Riccia', la bambina aveva il collo spezzato. Di netto. Gli è bastata una mano.»

I pensieri abbattono la diga e sgorgano uno dopo l'altro, stillano nella sua testa in una cascata inarrestabile, in un coacervo di voci assordante che, però, forma una sinfonia ben precisa:

«Va' via, Munaciello! Non mi fai paura. Non mi fai paura!»

«Tu... che ci fai qui? Come hai fatto a entrare?»

«Dio solo lo sa, cos'abbiano passato quelle povere creature.»

«Il fu colonnello era 'asciuto pazzo dopo che ha perso il figliolo suo.»

«Stava benissimo, teneva pure il nome sui vestiti, come ai ricchi!»

«Ci sono punizioni peggiori della morte, credetemi.»

«Me lo devi promettere, Alfredo. Me lo devi giurare.»

«Basta! Non ho fatto niente! Basta! Basta!»

«Commissario.»

Una lieve pressione sul gomito lo fa trasalire, spezzandogli il respiro tra naso e gola in modo udibile. Si volta di scatto a incrociare gli occhi affranti di Maione, scossi da un tremito visibile. Il brigadiere ritrae subito la mano, con fare di scuse, e Ricciardi si chiede da quanto lo stia chiamando, per spingerlo a ottenere la sua attenzione a quel modo così diretto.

«Dimmi,» esala, con voce affatto salda e il cuore che gli corre a mille e non accenna a placarsi, come avesse preso forma e corpo propri, in aperta ribellione col suo corpo.

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