5. QUARTIER GENERALE

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Fu un viaggio lungo. Lo trascorsi per lo più in stato semicosciente. Forse mi avevano somministrato qualcosa per tenermi buona o ero svenuta di nuovo. Quando arrivammo a destinazione era già molto buio. Scendemmo dall'auto, un'aria fresca si infiltrò sotto la mia maglietta madida di sudore.
«Adesso puoi urlare, se ti va» disse il capobanda. Non risposi, non urlai. Finsi di non udirlo, quella fu la massima manifestazione di disprezzo che riuscii a dimostrare. Mi limitai a guardarmi intorno; osservai il cielo, con l'illusione di orientarmi con le stelle. Non ci capii nulla. L'unica conclusione a cui giunsi fu che mi trovavo in aperta campagna.
Entrammo in una struttura che dall'esterno ricordava una stalla, anche l'odore di paglia ed escrementi bovini riconduceva a quello. All'interno invece si celava il quartier generale di una banda di rapinatori: una camionetta blindata al posto delle mucche, una postazione ultramoderna dotata di vari computer e telefoni, un cucinino, un gabinetto, un'ampia dispensa, un tavolo e un angolo cosparso di paglia soffice.
«Non startene lì impalata, cucinaci qualcosa.»
Era tutto così irreale, dal rapimento a quel posto, e poi quella richiesta.
«Non avete le mani per farlo da voi? Ho una figlia a casa che mi aspetta. Una bambina di sei anni» lo biasimai.
«Una biondina dislessica con la quale prendi la metropolitana ogni giovedì.»
Trasecolai. Era vero, portavo Emma da un logopedista in Piazza Missori ogni giovedì, la accompagnavo in metropolitana, e quell'uomo aveva comunicato con me in maniera del tutto anomala: aveva parlato senza l'uso della voce, senza muovere le labbra, eppure era stato molto chiaro. Gli altri due lo fulminarono con lo sguardo.
«Sì, proprio lei» balbettai. «Cosa vogliamo fare? Lasciarla orfana perché tre rapinatori ventriloqui hanno bisogno di una cuoca? Mi dispiace che mi conosciate di vista, forse mi avete rapita perché pensate che la cosa sia reciproca. Voglio rassicurarvi: non è così. E anche se malauguratamente sapessi chi siete non andrei certo a denunciarvi alla polizia. Non me ne frega un cazzo dei vostri affari, le banche sono le più grandi ladre e usuraie del paese, per quanto mi riguarda potete svaligiarle tutte.»
I tre mi guardavano con aria indifferente.
«Mia figlia ha bisogno di me. Liberatemi! Abbandonatemi dove volete, sul ciglio di una strada, bendatemi, legatemi a un palo, dimenticatemi nella campagna! Troverò io il modo per tornare a casa. Lasciatemi andare, vi prego.»
Lo pensavo davvero, non me ne importava niente di quei fuorilegge, volevo solo tornare a casa.
«Lì c'è la dispensa» disse il capobanda, senza batter ciglio.
Mi rassegnai. Cucinai degli spaghetti al sugo che non assaggiai, ero talmente angosciata che lo stomaco si era completamente chiuso. Bevvi solo qualche sorso d'acqua e poi andai a sdraiarmi in un angolo, sulla paglia. I pensieri si sparpagliavano nella mente, vedevo Emma in lacrime, arrabbiata con me perché non ero andata a prenderla a scuola. Giulio stava senz'altro gestendo bene la situazione, era un fuoriclasse nel rassicurare la gente, figurarsi nostra figlia. Emanuele invece, così delicato, così sensibile... Di certo in quel momento era fuori di sé. Ci mancava questa preoccupazione ad aggiungersi al dolore che da dieci anni lo divorava. Un dolore che aveva scavato una voragine nel suo sguardo, un cratere immenso, un buco nero che mi attirava sempre più a sé e che mi avrebbe inghiottita del tutto un giorno o l'altro. Ero sempre stata affascinata dal dolore, da quella dignità unica che conferisce in chi ne è travolto. E il dolore di Emanuele era un pozzo senza fondo.
Vidi il suo bambino perduto, quell'angelo dagli occhi blu portato via da una leucemia fulminante a soli sei anni. L'età della mia Emma.
Scivolai nel sonno con il dolce volto di quel bambino negli occhi. Non lo avevo mai incontrato, ma Emanuele me ne parlava così spesso e le sue foto erano presenti in ogni angolo della sua vita che mi sembrava di averlo conosciuto, di averlo accarezzato. Mi capitava spesso di sognarlo.

Come nei momenti di maggiore preoccupazione, il mio corpo si addormentò, ma non la mente. Li udii parlare. Utilizzavano un po' l'italiano e un po' una lingua sconosciuta che non si avvaleva delle parole; si esprimeva a sibili.
«Gesù che buona questa pasta» esordì l'energumeno.
«Perché l'hai rapita? Bzzzzzzzzzz» fece Pel di Carota a bocca piena.
Erano tutti e tre molto affamati, sembrava non toccassero cibo da qualche mese, eppure non avevano l'aria patita.
«L'ho riconosciuta. È una di quelli che bzzzzzzzzzz. Mai mangiato spaghetti migliori bzzzzzzzzzz» rispose il capo.
«Non è tra i segnalati bzzzzzzzzzz» replicò l'energumeno.
«Lo so, ma presto bzzzzzzzzzz se ne sarebbe accorta e allora bzzzzzzzzzz. L'ho letto bzzzzzzzzzz quando si è voltata ho visto il barlume bzzzzzzzzzz.»
«Bzzzzzzzzzz è fuori da ogni legge, bzzzzzzzzzz finiremo nei guai!»
«Ma noi siamo dei fuorilegge, Andel! Lo siamo dal momento in cui ci troviamo qui. La nostra vita è bzzzzzzzzzz. E comunque lei è spacciata. Credo abbia Bzzzzzzzzzz altrimenti non si spiega come bzzzzzzzzzz» concluse il capo.

Proseguirono i loro discorsi utilizzando unicamente quella loro lingua sibilata mentre passavano a rassegna le armi a loro disposizione.
Non compresi ciò che si dissero, ma mi agitai molto nel dormiveglia. Provai una sensazione terribile. Il corpo non reagiva, volevo svegliarmi, aprire gli occhi, muovere un braccio, parlare; il mio spirito scalpitava inquieto dentro di me. Mi sentivo come strattonare; subito dopo precipitavo da un grattacielo in preda alle vertigini. Le montagne russe di Gardaland erano finite dentro di me.
Con gli occhi chiusi vedevo con chiarezza tutto ciò che facevano; avevano un grande appetito, non riuscivo a interpretare quel loro modo di comunicare, eppure intuivo i loro discorsi. Ma tutto restava depositato in una cameretta della mia coscienza della quale non avevo la chiave d'accesso; un luogo che somigliava a un vagone della linea verde della metropolitana milanese.

Quando mi svegliai, il mattino dopo, un paio di cose mi erano chiare: mi avevano rapita senza alcuna intenzione di chiedere un riscatto. Non mi avrebbero liberata ed erano armati fino ai denti.

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