16. LAPUTA

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«Non parlo la vostra lingua» dissi sollevando le mani. «Mi aiuti, la prego».
L'uomo strabuzzò gli occhi. Un gigante bruno, trasandato, con una lunga pelliccia nera malgrado il caldo infernale, mi guardò con aria atterrita. Mi fece pensare ai beduini del deserto, forse in quel modo si proteggeva dall'afa. Si allontanò preoccupato ma io lo seguii, non potevo fare altro. Avrebbe potuto seminarmi, invece mi tenne solo a una certa distanza. Camminammo tra vicoli sporchi, calpestando strati di spazzatura, vetri, residui di metallo e di materiale organico. Un filo di luce si insinuò tra due grattacieli attirando il mio sguardo. Vidi il cielo, ma prima di esso una immensa città sospesa.
«Laputa» sussurrai.
Sembrava fluttuare nel blu. Ero scesa da lì, in un modo che oltrepassava la portata delle mie conoscenze.
Mi sentii come in una palla di vetro, di quelle che si donano a Natale. Una palla che doveva essere stata lanciata da qualcuno, da un bambino che non aveva gradito il regalo, forse, e che nell'impatto col suolo si era frantumata all'interno, mantenendo miracolosamente intatta la parete esterna.
«Dove mi trovo?» domandai.
L'uomo si voltò di scatto, agitò le braccia in segno di diniego. Sibilò con sguardo implorante.
Indicai la mia bocca, le mie orecchie, poi feci segno di no con la testa.
Lui sorrise e annuì. Non capiva la mia lingua ma grazie al mio modo forsennato di gesticolare riuscimmo a comunicare, se pur a stento. Ricordai la scuola di inglese che frequentavo a San Francisco, durante uno dei numerosi anni sabbatici della mia gioventù. Durante un gioco basato sulla conversazione, l'insegnante pretendeva che partecipassi senza l'utilizzo delle mani, pena l'esclusione. Sosteneva che noi italiani risultiamo così espressivi con i gesti, che non abbiano bisogno delle parole per farci comprendere. Quanto aveva ragione. Quanto mi tornò utile, in quel momento, quella prerogativa tutta italiana.
Seguii il beduino delle rovine fino al suo appartamento, al quattordicesimo piano di ciò che restava di un vecchio grattacielo. Mi accolse in un ambiente desolato le cui pareti, spoglie e scrostate, accennavano alla fine di una civiltà. I mobili si riducevano a un materasso sudicio e qualche mensola rotta. Non un quadro, non un libro, non uno strumento musicale. Gli feci segno di voler scrivere. Mi guardò senza capire cosa intendessi con quel gesto nervoso della mano. Cercai qualcosa che somigliasse a un foglio di carta, a una penna. Non c'era nulla, nemmeno l'ombra di un pc o di un telefonino. Ricordai di aver visto dei cocci sulla scala, mi precipitai a prenderne uno; tornai nell'appartamento e feci delle incisioni sul muro. Disegnai il sole e qualcosa di simile alla città alta, poi indicai il cielo.
«Absel, amstach, ovez?» domandò lui, facendo una grande fatica ad articolare quelle parole e indicando a sua volta il cielo.
«Sì, oggi! Sono arrivata oggi» replicai entusiasta.
«O-g-g-i» ripeté a gran fatica lui. Sembrava non parlasse da anni.
«Sì! Sì!» esultai, poi lo abbracciai. Lui arretrò spaventato.
«Obs, obs» protestò.
«Obs?» dissi io muovendo la testa in segno di no.
«Obs!» confermò.
Avevamo imparato due parole, 'oggi' e 'obs', e avevo scoperto che i giganti non amano gli abbracci.

RapitaWhere stories live. Discover now