21. LE PIETRE GALLEGGIANTI

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A svegliarmi fu uno dei sibili di Israel. Avvertii una sensazione fastidiosa alle mani, le osservai: erano imbrattate di sangue. L'uomo, che mi stava seduto accanto, aveva vegliato su di me tutta la notte. Stringeva uno straccio pregno di sangue; mi sollevai di scatto. Un liquido caldo defluì dalle mie narici. Israel si precipitò a tamponare la perdita.
«Non mi è mai successo» mi giustificai.
L'uomo emise una serie di sibili. Approfittai della vicinanza per capire come facesse a produrre quel suono. Notai che il sibilo non proveniva dal suo corpo; all'altezza delle sue spalle, galleggiava una piccola pietra luminosa. Emetteva una luce debole e intermittente, di una sfumatura che andava dal viola al blu. Guardai stupefatta la pietra che se ne stava sospesa senza alcun sostegno.
Israel mi offrì il più ampio dei suoi sorrisi monchi.
Va tutto bene, disse una voce dentro di me. Lo guardai sconcertata; egli annuì.
«Sei stato tu» balbettai. «Hai parlato nei miei pensieri...»
La pietra roteò su se stessa emettendo un lieve bagliore. Sibilò.
Sì, sono stato io.
Capivo. Non so in che modo, percepivo i pensieri di Israel dentro di me.
«Ho bisogno di un bagno». Finalmente riuscivamo a comunicare. «Devo lavarmi, ho bisogno di bere, e poi questo sangue... cosa mi succede?»
Scostai il tessuto dal naso.
«Mi sento così male.»
Mi assalì la nausea, segno che la mia pressione stava precipitando. Mi sdraiai.
Hai affrontato un lungo viaggio. Questa ti rimetterà in sesto, almeno per qualche ora, udii tra i pensieri.
Inghiottii l'ennesima pillola, certa che di lì a qualche minuto mi sarei sentita meglio.
Quando riaprii gli occhi, la pietra galleggiante non c'era più. Israel mi fece segno di alzarmi, dovevo aver ripreso colore. Con un gesto della mano, mi chiese di seguirlo. Scendemmo le scale, per quattordici piani, senza incrociare nessuno. La popolazione doveva essersi ridotta drasticamente perché mai, in vita mia, mi era capito di assistere a una simile desolazione. Percorremmo strade abbandonate perfino dalla luce del sole; lui camminava avanti, io lo seguivo qualche passo dietro. Mi sentivo molto debilitata. Avevo dormito a lungo, eppure quel sonno si era rivelato poco ristoratore.
Giungemmo ai piedi di un canale, nel punto in cui si inabissava sotto il livello del suolo. Il paesaggio, sovrastato dai grattacieli, mi era del tutto estraneo, ma quel canale... mi ricordò uno dei navigli di Milano.
«È la Martesana?» domandai incredula. Avevo bisogno di trovare qualcosa di noto, un punto di riferimento che mi facesse sentire meno sperduta e sola.
Un'ombra comparve sul volto di Israel. Ripetei sotto voce: «È il naviglio, questo? La Martesana?»
Aveva smesso di rivolgersi ai miei pensieri. Gli suggerii, gesticolando, di utilizzare la pietra galleggiante che qualche ora prima aveva funto da traduttore. Israel scosse animatamente la testa. Mi implorò, sottovoce: «Obs! Obs!»
Mi rassegnai al silenzio e lo seguii ubbidiente lungo il naviglio, sulle cui sponde bivaccavano alcune persone, sparse in piccoli accampamenti solitari. C'era chi si immergeva in quelle acque putride, qualcuno riempiva dei contenitori, simili a borracce, sorbendone il contenuto. Israel estrasse dal pastrano la sua borraccia, me la offrì indicando l'acqua che scorreva cheta.
«Non la berrò mai!» proruppi disgustata. «Preferisco morire di sete che bere quell'acqua sporca!»
Mi fulminò con lo sguardo. Avevo urlato. Due uomini e una giovane donna si voltarono a guardarmi. Gli uomini mi scrutarono qualche istante e si rimisero a contemplare il vuoto, con le loro bevande in mano, la ragazza invece si avvicinò.

«Tu, parli» disse sforzandosi di articolare quelle parole. Fece un giro attorno a me, squadrandomi da capo a piedi. «Tu, parli, 'taliano, antico» pronunciò a stento.
Israel emise un sibilo, lei rispose con un sibilo. Nessuna pietra galleggiante si palesò. Cercai di intuire cosa si stessero dicendo, ma i loro volti non lasciavano trapelare alcuna emozione. Li interruppi.
«Conosci la mia lingua. Sia ringraziato il cielo!»
Lei mi fece segno di parlare più lentamente. Allora ripetei, scandendo bene le parole: «Conosci la mia lingua.»
«Sì, parlo, 'taliano, antico, 'mparato, quando, piccola. Mamma, 'mparato. Nonna, 'mparato. Sempre, 'taliano, 'taliano, studia, 'taliano, dice, mamma.»
Si esprimeva con gli occhi molto meglio che con le parole. Nel suo sguardo c'era qualcosa di familiare, ma non capivo chi mi ricordasse. Poteva essere la discendente di qualche mia antica amicizia, pensai.

«Ho sete» dissi imitando il gesto di bere. «Tantissima sete.»
Quelle loro pillole erano sufficienti a saziare, ma non dissetavano.
La ragazza mi offrì la sua borraccia. Rifiutai disgustata. Chiesi come potessero bere quell'acqua torbida. La ragazza non comprese il motivo del mio rifiuto, poi disse: «Depura, guarda». Mi mostrò lo strano marchingegno posizionato all'imboccatura di quella strana bottiglia. Osservai l'acqua in controluce: era limpidissima. Lei mi fece di sì con la testa e anche Israel mi incoraggiò. La assaggiai. Era squisita; limpida e insapore come acqua di sorgente. Mi scolai la borraccia in poche, ampie sorsate; ringraziai la ragazza, chiesi il suo nome.
«Smilliu» rispose entusiasta.
La abbracciai.
Lei arretrò spaventata. Mi scusai, ripromettendomi di evitare i contatti fisici con chiunque altro avessi incontrato in quel luogo.
«Grazie, Smilliu» dissi lentamente. «Io mi chiamo Bianca e ho mille anni. Millequarantotto, per la precisione.»

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