8. RAPITA

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Il mattino dopo mi consegnarono una confezione di tinta per capelli della L'Oréal.

«Non l'ho mai fatta da sola, e poi questo non è il mio colore» protestai.
«Ti facevo più sveglia, mamma» disse Pel di Carota, sinceramente allibito.
Mi accompagnò davanti allo specchio del bagno che condividevamo da qualche ora. 
«Immagino tu non sappia neanche rasarti da sola.»
«Rasarmi cosa?»
Il ragazzo emise un breve sibilo. Indicò la testa con un gesto del mento.
«Ma perché? Perché? Cosa volete da me? Cosa vi ho fatto? Dovete liberarmi! La capite questa parola? L-i-b-e-r-t-à! Non vi ho fatto nulla, non ho niente da darvi, dovete lasciarmi in pace!»
Pel di Carota ammise che gli dispiaceva, e mi aiutò con i capelli; prese una grossa forbice e recise la treccia che avevo improvvisato con le mani tremanti, poi passò al rasoio. Aprì il tubetto e iniziò a spennellare su ciò che restava della mia vanità. 
«Perdonami» disse amareggiato, lasciandomi sola per qualche minuto. Piansi, mentre la tinta copriva il ricordo del mio antico colore.
Mi concessero di fare una doccia; mi consegnarono degli abiti usati ma puliti, di una taglia che si avvicinava alla mia: una t-shirt bianca a maniche corte, una tuta grigia dell'Adidas e un paio di scarpe di tre misure più piccole. Pel di Carota mi cedette le sue All Star, di due misure più grandi. 
«Però in cambio cucina per noi» mi supplicò. «Ah, ti donano molto i capelli di questo colore; sembri una ragazzina, mamma.»
Rifiutai di guardarmi allo specchio. Non avevo mai portato i capelli corti, tanto meno neri. Li mandai al diavolo, ma accettai di cucinare delle uova fritte; iniziavo ad avere appetito anch'io. Misi su un tè.

«Posso sapere perché siete tanto affamati?»
Non mi aspettavo alcuna risposta, invece fu il capobanda a parlare.
«Dalle nostre parti ci nutriamo con del cibo sintetico». Mi porse una confezione di pillole. «Vuoi?»
La presi in mano, cercai di capire di cosa si trattasse, ma la confezione risultò indecifrabile. Era di un materiale mai visto prima, e sopra non c'era alcuna scritta. Solo pochi simboli sconosciuti.
«Non ho più l'età per farmi di LSD, comunque grazie» bofonchiai.
«Questa è una colazione completa. Carboidrati, vitamine, proteine e sali minerali. Una bontà unica» ridacchiò Pel di Carota. «Dài, provane una...»
Rifiutai con fermezza.
«Da dove venite?»
«Sprecheremmo solo del fiato, tanto non ci crederesti.»
«Siete danesi? Norvegesi? Pensavo che lassù ve la passaste meglio. Possibile che vi nutriate così male?»

Ci sedemmo a tavola insieme, mangiammo le uova con qualche fetta di pane confezionato.
«Veniamo da Milano. La domanda giusta però è un'altra» disse l'energumeno a bocca piena.
«E cioè?» risposi disgustata, distogliendo lo sguardo.
Non mi facevano più paura, percepivo l'indole delle persone con cui avevo a che fare e loro non erano cattivi. Erano solo stupidi, e maleducati. Avrei potuto prenderli a sberle che non mi avrebbero torto un capello.
«Dovresti chiederci: da "quando" venite» rispose il capo.
«Da quando venite, che razza di domanda è?» ero lì lì per sgridarli come delle scolarette.
«Da quando, cioè da quale tempo, è facile. Ti facevo più sveglia, mamma» intervenne Pel di Carota.
Iniziai a stufarmi. O erano pazzi , e a parte il rapimento e quel sibilo col quale comunicavano non avevano mostrato eclatanti segni di squilibrio, oppure ero vittima di una candid camera. Invocai la pazienza e li assecondai.
«Va bene, allora ditemi: da "quando" venite? O meglio: da quale epoca storica arrivate, gloriosi viaggiatori del tempo?» mi inginocchiai alzando le braccia al cielo, come fossero degli dèi. L'espressione buffa dei loro volti, mi fece scoppiare a ridere. Risi come non accadeva da tempo, li ridicolizzai forse, perché smisero di parlarmi.

Tornammo in macchina. Una Fiat Panda, grigia come il cielo, aveva preso il posto del fuoristrada del giorno prima. Prima di salire a bordo incontrai per caso la mia immagine riflessa sul finestrino, rabbrividii: non mi ero riconosciuta. Percorremmo con lentezza strade di campagna, a tratti costeggiammo l'autostrada, i binari della Freccia Rossa. Quel poco di orientamento che mi restava mi suggerì  che stavamo tornando a Milano.

«Allora? Quale epoca?» li punzecchiai.
I tre ragazzi si guardarono titubanti.
«Sentite, siete delle persone molto gentili, vi ho capito. Avete commesso una sciocchezza, ma io vi perdono. Vi ho già perdonati ieri sera, quando avete dimostrato di rispettarmi. Vi perdono anche per quello che avete fatto ai miei poveri capelli; avete distrutto anni di lavoro per avere una testa decente, ma vada anche questa. Non capisco perché vi ostiniate a tenermi con voi. Non sono un pericolo, guardatemi. Potrei essere vostra madre. Avete la mia parola: non vi denuncerò. Volete del denaro? È questo che volete?»
«Veramente potresti essere nostra figlia» puntualizzò il capobanda.
«Ma se avete la metà dei mie anni! Ascoltatemi, vi servono dei soldi? Vi darò ciò che posso, davvero, non ho molto, ma se avete bisogno di denaro me lo procurerò. Volete questo anello? Vale parecchio» lo sfilai rapidamente, lo sollevai in aria per mostrarglielo «eccolo, è vostro. Ma lasciatemi andare. Vi giuro che non dirò niente alla polizia, anche perché non saprei cosa dire. Non vi conosco, avete dei lineamenti così anonimi che non saprei neanche descrivervi. A parte quella testa rossa» dissi indicando Pel di Carota «non avete proprio nessun segno particolare.» 
Li osservai per la prima volta alla luce del sole. Non avevo con me gli occhiali, ma erano così vicini che potevo scrutarli bene. Sembrava si assomigliassero tra loro, avevano nasi regolari, occhi normali, dal taglio neutro, né troppo grandi né troppo piccoli, labbra di medio spessore, zigomi non troppo sporgenti e menti appena accennati. Erano rasati alla perfezione e portavano un taglio di capelli classico. Erano chiari di pelle, potevano provenire da qualche paese del nord Europa anche per via dell'altezza. L'energumeno era più massiccio degli altri, unico altro particolare oltre ai capelli di Pel di Carota, che però non aveva lentiggini. Potevano essere fratelli.
«Tieniti stretto quell'anello, ti servirà» mi suggerì il capobanda.
«Avete intenzione di portarmi a casa vostra e tenermi segregata? Almeno ditemi dove si trova. Avete bisogno di una domestica? Ho bisogno di una boccata di verità, vi prego!»
A parte quel sibilo attraverso il quale comunicavano di tanto in tanto, non avevano alcun accento particolare.
«Te lo abbiamo già detto. Viviamo a Milano» insisté l'energumeno.
Indossavano abiti comuni, magliette a maniche corte non molto sgargianti e jeans chiari. Ai piedi portavano delle All Star dai colori neutri. Se li avessi incontrati per strada il giorno seguente non li avrei riconosciuti. Avevano un aspetto del tutto ordinario.
«La domanda giusta, come ti abbiamo già detto, è un'altra» ripeté Pel di Carota annoiato.
Sbottai.
«L'ho fatto prima, ma non ve lo chiederò più, non starò al vostro stupido gioco. Siete per caso  degli YouTuber idioti? Volete dimostrare di saper tirare scema una donna di mezza età, convincendola in ventiquattro ore che i viaggiatori del tempo esistono? Guardate che io sono più pazza di voi, sono una scrittrice! Dove sono le telecamere?» iniziai a gesticolare in maniera forsennata «Dove! Sono! Le! Telecamere!» urlai. «Ehi guardatemi sono qua!!! Questi tre stronzi imbecilli che potrebbero essere miei figli vogliono convincermi che arrivano dal futuro. Volete sapere se ci credo??? No! Non ci credo, e ve lo dirò anche nella loro stronza lingua del futuro! Bssssss Bssssssssssss! E voi non guardatemi così» li rimproverai. «Vada per la richiesta di riscatto, ma se questo è uno stupido gioco come credo, finirete nei guai. Rapitemi, ma non prendetemi per il culo o quanto è vero che mi chiamo Bianca vi rovino.»
Ce l'avevano fatta a farmi infuriare.

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