27. IL PROFESSORE

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Il Professore ci condusse nella grande sala da pranzo appoggiandosi al suo bastone. La tavola era stata apparecchiata con cura, con le posate d'argento e le tovaglie ricamate. Solenni raffigurazioni femminili ci osservavano dalle pareti; un affresco settecentesco, appena restaurato, sonnecchiava sull'ampio soffitto a volta.
Non era cambiato nulla.
«Vieni, accomodati accanto a me» disse sedendosi a capotavola.
Presi posto alla sua destra, come ai vecchi tempi. Hadassa si mise alla sua sinistra, di fronte a me; Smilliu si sedette accanto a lei e Israel prese posto accanto a me. L'altra metà del tavolo rimase vuota, anche se apparecchiata.
«Il principe Morini è in ritardo anche oggi» notò il Professore. «Anche il mio vicino di casa, il magnate della seta, non si vede da un pezzo» continuò pensieroso. «Credo di aver fatto qualcosa che li abbia disturbati. Vedi, a una certa età non si capiscono più le battute di spirito. Non posso negare che le loro mogli da giovani furono dei bei bocconcini, ma da anziane, insomma, se mi è sfuggito un complimento l'ho fatto così, per lusingarle un po'.»
Sollevò il campanello d'argento, appoggiato davanti a sé, sul tavolo; lo scosse appena. A quel suono, comparvero i suoi domestici: due giovani filippini in livrea e guanti bianchi. Iniziarono a servire il pranzo da me, che ero l'ospite d'onore. Il domestico mi accostò una pentola di ceramica contenente dell'ottima casoeûla; me ne versai tre mestoli. Nonostante lo scarso appetito, avvertii il bisogno di mettere qualcosa tra i denti. La giovane donna lo seguì silenziosa, offrendomi della polenta. Israel si commosse davanti a quel ben di dio.
«Così lei non si nutre di pillole, come tutti gli altri» mi complimentai.
«Pillole; quelle sono delle autentiche porcherie. Guarda come mi hanno ridotto. Sono obbligato a prenderle, sai, alla mia età... ma le detesto. Giuro.»
«Professore» gli feci notare «forse deve ringraziare le pillole se lei è ancora vivo, anche se...» scossi la testa. «Non è possibile che sia nato nel 1921. Mi dica la verità, la prego: sto sognando? O forse sono morta. È questo il paradiso?»
«Il paradiso... No, non penso. Non con questo corpo decrepito che, diamine, non lo sopporto più. È diventato così pesante e inutile; non  ci vedo quasi più, senza apparecchio acustico sarei sordo, e non percepisco quasi più i sapori. Absel non ne può più di me, continuo a finirgli il sale.»
Il domestico sorrise timidamente.
«E allora cos'è questo posto?»
«È casa mia...» mi guardò perplesso. «A proposito, dov'è tuo marito? È da un po' che non mi delizia con il suo violino.»
Il Professore si era sempre nutrito di cultura più che di cibo. Nella sua casa erano passati i più grandi musicisti dell'epoca da cui provenivo. Organizzava questi pranzi in cui invitava i suoi amici, tutti anziani molto facoltosi come lui, alcuni discendenti dall'antica nobiltà lombarda. Emanuele veniva invitato spesso, e dopo la prima volta, in cui mi condusse con sé per caso, aveva dovuto portarmi sempre. Il Professore aveva saputo del mio talento, gli mancava giusto una scrittrice da annoverare alla schiera di artisti che allietavano le sue ore; non voleva che mancassi mai. Ogni volta che invitava Emanuele si raccomandava di portare la 'cara moglie'. Era convinto che fossimo sposati e non c'era alcun motivo per cui dovessimo smentirlo. Aveva letto tutti i miei romanzi, era uno dei miei rari ammiratori, anche se avevo sempre sospettato che apprezzasse più il mio profilo che la mia prosa.
«Professore, mi dica in che anno ci troviamo.»
Egli mi guardò stupefatto.
«In che anno vuoi che ci troviamo? Siamo nel... nel...» cercò il suo domestico con aria smarrita. «Non ricordo neanche più come mi chiamo, come vuoi che mi ricordi l'anno» ammise. «Absel, portaci un'altra bottiglia di questo rosato» ordinò al cameriere. «Devi dire a Burel di procurarmi un altro paio di queste, sono davvero prelibate» aggiunse sottovoce.
Nell'udire il nome del mio rapitore Hadassa sussultò.
«Burel, Professore, ha detto Burel? Il mercante di cibo?»
«E chi sennò?»
«È stato lui a portarmi qui! Forse può aiutarmi a tornare a casa...» mi sembrò di sognare.
«L'ha portata qui contro la sua volontà? Pensavo le facesse piacere venirmi a trovare» puntualizzò.
«Non mi fraintenda» gli sfiorai la mano.
Era gelida.
«Professore, lei è... le sue mani...»
«Non me lo dica, ho sempre freddo. La temperatura del mio corpo, quando va bene, raggiunge quella dell'ambiente. Quanti gradi ci sono oggi, Absel?»
«Ventiquattro» rispose il domestico.
«Cosa darei per avere ventiquattro anni, anziché ventiquattro gradi» protestò.
Guardai il volto del professore; le sue labbra livide, la carnagione cinerea... misi giù le posate.
Hadassa mi lesse nel pensiero. Raggelò quando intuì il motivo di quella lunga esistenza; Smilliu e Israel non alzarono la testa dal piatto. Erano talmente affamati che non avrebbero smesso di mangiare nemmeno davanti a una nuova Catastrofe.
«Mi manca la musica» confessò il Professore. «Qui non viene a suonare più nessuno. Mi evitano tutti.»
Non è colpa sua, intervenne Hadassa. La cultura è morta da qualche secolo ormai. Non esistono più gli strumenti musicali. Il suo pianoforte credo che sia un pezzo unico al mondo. La Catastrofe ha completato il lavoro iniziato dalla Grande Manipolazione; ha spazzato via l'unicità, la bellezza, sospirò.
Fu terribile, ricorda? Tutta quella gente inghiottita in quel buco, disse il Professore.
Non ero ancora nata, gli fece notare Hadassa.

Una pietra galleggiante si materializzò al centro del tavolo. Era diversa da quella piccola e dai riflessi viola di Israel, e anche da quella di Hadassa, leggermente più grande e di un colore ambrato. La pietra del professore era di un bianco accecante; sembrava una piccola luna impazzita.
Mi chiamo Massi. Donatello Massi, sono stato primario di ginecologia per venticinque anni, ho fatto nascere seimila bambini. E ho novantasei anni. Non so come considerare questi ultimi mille, rifletté.
Ricordai solo allora che il Professore era stato dichiarato morto dai suoi familiari, nel 2016; il suo corpo gelido, lo sguardo vacuo, scossero la mia memoria. Eppure il suo fare allegro e la sua gentilezza erano rimasti invariati, come i più piccoli dettagli della casa.
Sarebbe stato meglio andarmene, come tutti gli altri. Vivere così a lungo, in queste condizioni... mi sono auto inflitto il purgatorio. Esisteva già l'ibernazione in stato di veglia, vide le mie domande moltiplicarsi, anche ai nostri tempi. Ma non è stato un buon affare. Sono rimasto solo; da quando non esiste più la musica, niente ha più senso.
Una lacrima gli rigò il viso. Gli avrei accarezzato la mano, se non avessi avuto la repulsione dei cadaveri.

"HADASSA"
Il suo nome comparve al centro del tavolo, all'improvviso. Udimmo una voce flebile provenire dall'angolo più remoto dell'universo. Israel e Smilliu, sollevarono la testa dal piatto costernati. Lo stesso Professore si turbò.
"IL MIO BAMBINO"
continuò in un sospiro.
La voce, balbettò Hadassa. La guardammo tutti, sembrava in trance. La voce della mia malinconia.
Fu come assistere all'apparizione di uno spettro; qualcosa che non esisteva, aveva manifestato il proprio tormento. Ebbi una vertigine.
Bianca, disse Smilliu, hai ripreso a sanguinare.
Israel si precipitò a tamponare la perdita, ma quella volta l'emorragia non si arrestò.

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