31. LOOP

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I giorni fluiscono lenti, così come i mesi e le stagioni. È trascorso un anno dal mio risveglio. Oserei dire la mia rinascita, se non mi fossi svegliata di mezzo secolo. Non so con esattezza quando sono nata, ma so che al mio arrivo avevo quarantotto anni.

Ho di nuovo i capelli, castani nonostante i miei cinquantadue anni, e i miei compagni, tutti più vecchi di me, sembrano i miei fratelli minori, per non dire i miei figli.
Ogni giorno mi ripetono ciò che sanno di me, seguendo il rigido protocollo dei camici azzurri che si occupano della mia salute. Pensano di farmi tornare la memoria tormentandomi. Recitano una filastrocca non molto lunga e sempre uguale: sono stata rapita quattro anni fa da Dagmos e due suoi amici viaggiatori del tempo, fuorilegge e mercanti di cibo come lui. Dagmos ribadisce che dovrei ringraziarli; se sono ancora viva è solo merito loro. Mi hanno rapita perché il tumore al cervello aveva alterato le mie percezioni extrasensoriali, facendomi notare l'anomalia del portale sul vagone; Burel lo aveva letto nei miei pensieri il giorno della rapina. Mi aveva 'spenta' davanti al metal detector e io avevo creduto di essere svenuta.
Rischiavamo la pelle per quei viaggi, siamo stati costretti a farti sparire, ripete ogni giorno per lenire il proprio senso di colpa.
Forse per questo mi è passata la voglia di picchiarlo a sangue; ho più pena di lui che di me stessa. Ma non riesco a essergli riconoscente. Sono viva, sempre che questo limbo incolore, senza ricordi e senza passione, possa definirsi vita.
Mi capita di pensare che il tumore si sia sviluppato durante lo sbalzo temporale cui mi hanno costretta, ma tengo questo sospetto per me. Da quando Burel è stato soppresso, Dagmos ha il morale sottoterra. È ricercato anche lui, per questo abbiamo chiuso la porta spaziale e non riceviamo nessuno.

È tornato l'autunno e io continuo a non ricordare chi sono. Ho riacquisito l'uso della articolazioni, del linguaggio telepatico tramite la pietra che, a differenza degli altri, non mi è stata assegnata alla nascita. Me l'ha donata il proprietario della villa, un anziano millenario che ho conosciuto nel passato da cui provengo e ho rincontrato prima di entrare in coma; è morto nel periodo in cui mi hanno curata nel macchinario che utilizzava per auto conservarsi. Prima che arrivassi io, lui ci dormiva ogni notte. Si è immolato per me; per non farmi sentire in colpa, ha lasciato una lettera in cui spiega le ragioni della sua scelta suicida. In questa casa l'unica che sa leggere sono io e, di quella lettera, non ci capisco niente.

Mi permettono di andare in riva al lago di tanto in tanto; laggiù, cerco le risposte. Ho una figlia di nome Emma di cui non ricordo il volto né l'odore; perché non dovrei tornare da lei? Mi chiedono di aiutarli a salvare un bambino non mio, morto di leucemia. Hadassa dice che è l'unico modo per cancellare la malinconia congenita che la opprime da prima che nascesse; la madre del bambino ha innescato l'anomalia che ha attraversato i secoli per approdare a lei; Hadassa vuole liberarsene, per poter emigrare.
Non la amo così tanto da sacrificarmi; se ho una figlia, è bene che torni da lei. Che Hadassa si arrangi. Ci pensi lei a salvare il suo bambino.
Lo farei, si giustifica, è che non so 'dove' andare.
Smilliu è convinta che insieme al tumore mi abbiano tolto un po' di umanità; vorrei vedere lei nelle mie condizioni. Mi sento sempre meno reale; senza un passato, la mia vita si riduce al racconto che gli altri fanno di me.
A volte mi sento un personaggio inventato o, peggio ancora, la microscopica parte del dipinto che ho davanti: un lago oltre la vetrata.

Il lago è disabitato. Il pittore ha abbondato con le ombre ma si è dimenticato i pesci, qualche cigno, una barchetta con due innamorati.

Che cos'è l'amore? chiede Israel.

Da qualche tempo viene a farmi visita un bambino. Nessuno sembra notarlo. Mi rimproverano per i miei continui ritardi, dovrei fermarmi al lago un paio d'ore ma io ci trascorrerei le giornate; ogni volta che rientro tardi trovo quel bambino sul pavimento della libreria. Israel pensa che sia un espediente per decentrare le loro preoccupazioni.

Domani, il bambino dagli occhi blu, arriverà prima che io decida di uscire. Lo vedrò, mi stupirò del cambio d'abitudine, mi rimetterò a sedere. Ha un'età per cui non sa ancora leggere eppure gioca sempre intorno alla libreria. Quando comunico con lui, creo sempre del turbamento in casa.
Domani, sarà un delirio.
A volte anche i camici azzurri presenziano a quelle sedute, Hadassa insiste perché assistano a quelli che appaiono dei soliloqui. Paventano un amico immaginario. Smilliu è più orientata sul prodotto di una gravidanza isterica.

Il bambino non è in grado di afferrare nulla, ha una consistenza diversa dalla nostra, ma non meno reale; non parla, ma mi farà intendere che vuole leggere un libro. Mi alzerò e andrò verso di lui, osserverò la libreria.
«È questo che vuoi?» dirò a voce alta.
I miei compagni si sconvolgeranno, hanno dimenticato quel mio modo arcaico di comunicare, di cui non capiscono nulla. La telepatia è neutralizzata dall'utilizzo delle parole.

Domani il bambino mi indicherà un libro particolare. Lo tirerò giù dallo scaffale, lo aprirò, noterò che è stato pubblicato nel 2017. Quella notizia catalizzerà l'attenzione su di me.
È l'anno dal quale provieni, dirà Hadassa.
Lo so, me lo ripetete ogni giorno, replicherò torva.
Il bambino si siederà sulle mie ginocchia.
Mi perderò in quegli occhi di un blu delicato, come quelli di Hadassa; a differenza dei suoi, che non puoi guardarli senza avvertire il bisogno di suicidarti, gli occhi del piccolo ridono.
L'affetto che provo per lui si consolida ogni giorno.

«Rapita» inizierò a leggere. «Storia di un viaggio nel tempo.»

La storia è quella di una donna in crisi di mezza età; è stata portata via dal suo tempo, durante una rapina in banca.

Mi arresterò. Ci guarderemo sbigottiti.
Hadassa mi chiederà il nome della protagonista. Andrò avanti finché non salterà fuori, nel quinto capitolo.
«Bianca» dirò con un filo di voce.

Nessuno là dentro capisce la mia lingua. Ma tutti capiscono che in quel libro c'è scritta la mia storia.

RapitaWhere stories live. Discover now