7. EMANUELE

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Emanuele seppe del rapimento dal telegiornale di Mentana. Era seduto a tavola con Gloria, come sempre taciturna e con lo sguardo perso nel vuoto. Il mio volto riempì lo schermo. Quasi si strozzò col cibo.
Sotto la mia immagine baluginava la scritta: RAPITA. Alzò di poco il volume e ascoltò i fatti con attenzione. La donna percepì il cambiamento del suo stato d'animo.
«La conosci?» domandò senza distogliere lo sguardo dal seggiolone di Manuel.
«È la moglie di un mio allievo» mentì.
«Allora chiamalo, cosa aspetti?» disse prima di alzarsi da tavola e prendere in braccio il bambino immaginario che pasteggiava sul seggiolone vuoto. «Metto a letto Manuel, si è fatto tardi.»
Emanuele, la guardò allontanarsi. Stette per qualche istante a osservare la porta che si era chiusa alle spalle. Poi si alzò da tavola, infilò la giacca di pelle e uscì senza salutare. Per poco non travolse la pettegola del palazzo che se ne stava sul suo zerbino a origliare; la evitò con cura. Con la coda dell'occhio notò il suo sorriso soddisfatto, avrebbe avuto di che sparlare per qualche giorno.
«La moglie del suo allievo, come no» bisbigliò sottovoce.
Lui finse di non sentire, si precipitò nel garage dove custodiva la sua Ducati e corse da Gabu. L'amico finanziere, assiduo frequentatore dei locali più loschi di Milano, lo avrebbe senz'altro aiutato a capirci qualcosa.

«Sali» gli disse al citofono, come se lo stesse aspettando da un pezzo.
Nella sua voce c'era un'insolita inflessione compassionevole; l'espressione stravolta del proprio volto doveva aver bucato il microscopico schermo del citofono.
Emanuele salì gli otto piani a piedi, era troppo agitato per resistere qualche minuto in un ascensore. Quello di quel palazzo, tra l'altro, era particolarmente angusto. La porta dell'appartamento di Gabu era accostata, entrò come se fosse casa sua; una giovane donna, mai vista prima, gli mise un gin tonic in mano. Si presentò. Emanuele si accasciò sul divano, appoggiò il gomito sul bracciolo logoro e tracannò il drink con un'ampia sorsata.
«Grazie...»
«Claudia.»
«Scusami, Claudia. È che non ricordo mai i nomi delle persone che ho appena conosciuto, con l'età peggioro. Perdonami, davvero; mi scoppia la testa...» disse mortificato.
Si massaggiò le tempie per lenire il dolore.
«Non preoccuparti» rispose lei gentile, prima di stendersi sul divano. Appoggiò la testa sulle gambe di Emanuele. Accese uno spinello, glielo passò.
Gabu uscì dal bagno con una salvietta striminzita arrotolata sui fianchi.
«Ciao bello, dammi un minuto e sono tutto tuo. Ho saputo di Bianca. Che cazzo gli è venuto in mente a quei coglioni. Rapirla! Devono essersi fottuti il cervello.»

Dopo pochi minuti erano a cavallo della Ducati. Era una serata calda, Emanuele si annodò la giacca in vita, Gabu uscì direttamente in maglietta a maniche corte, con il cobra tatuato sul bicipite destro bene in vista insieme ai muscoli trasbordanti. Viaggiarono adagio; osservarono tutti i passanti, radiografando senza ritegno l'interno delle auto; erano in assetto da guerra. Scandagliarono ogni angolo della città, a caccia dei delinquenti che mi avevano rapita. Quando incontravano un fuoristrada come quello utilizzato dai rapitori lo facevano accostare, anche se alla guida c'era un padre con la sua innocua famigliola. Grazie al tesserino delle Fiamme Gialle facevano scendere i proprietari dell'auto e rovistavano indisturbati. Batterono i peggiori bar dell'hinterland milanese, iniziando da quelli più malfamati. Lentamente, si spostarono verso il centro. Nessuno sapeva nulla, se non che i malviventi venivano da fuori; non si aveva la più pallida idea di chi fossero. I volti erano stati resi noti dalle autorità, ma nessuno li aveva mai visti prima.
«Vengono a rapinarci qui, nel nostro territorio, a volto scoperto. Portano via le nostre donne, extracomunitari del cazzo. E noi che li accogliamo a braccia aperte, li soccorriamo, li ospitiamo nei migliori hotel! Questi non hanno rispetto di niente. La troveremo Gabu, non temere, quei bastardi avranno la lezione che meritano. Li rimanderemo sui barconi con le gambe rotte.»
«Ma quali barconi! Le avete viste le foto, o no? Vi sembrano nigeriani quelli, o siriani? Ma che cazzo.»
Prima di uscire dai bar, Gabu bestemmiava per almeno dieci minuti. Si scolava qualche media, sostenendo che niente come la birra sapeva ammansire il gene della furia omicida che gli scorreva nelle vene; poi risaliva in moto con Emanuele. Faceva sempre più fatica a rassicurarlo.
«Due giorni al massimo e la troviamo. Certo che tu attiri sfiga, porca troia. Non rapiscono una persona da trent'anni, vanno a rapire la tua fidanzata. Che cazzo.»
«La mia fidanzata» ripeté Emanuele, sempre più avvilito.

Prima di tornare a casa, Gabu volle passare da Piazza Vetra a ritirare qualcosa per l'amico; gli assicurò che lo avrebbe aiutato a dormire.
«È una pillola antidepressiva, chiamiamola così. Buttala giù appena ti infili nel letto, non prima, mi raccomando» ridacchiò. «Ascoltami bene: vai a casa, ti metti il tuo bel pigiamino, quello con gli orsacchiotti; ti lavi bene le manine e i dentini, dai un paio di colpi a tua moglie e poi ti infili questa pillola in bocca. Non sbagliare l'ordine, però, che se no fai un macello» concluse divertito.

Emanuele tornò a casa un poco rasserenato. Il giro in moto, soprattutto il tratto di ritorno dal centro, lo aveva aiutato a distendere i nervi. Gli amici di Gabu erano molto più rassicuranti delle forze dell'ordine; egli stesso era una di quelle persone che trasudano serenità. Basta stragli vicino per sentirsi al sicuro. Non era mai andato molto d'accordo con Bianca, però a lui ci teneva. Si sarebbe prodigato per trovarla.
Fece una lunga doccia calda, poi si infilò nel letto indossando i soli boxer. Adorava sentire il fresco delle lenzuola sulla pelle; per qualche istante quella sensazione riusciva ad anestetizzargli i pensieri. Gloria dormiva in un angolo del letto cullando il ricordo del loro bambino. In un tempo non molto lontano, quella stessa donna si addormentava tenendo fra le braccia lui. Si adagiò nell'angolo opposto del letto, struggendosi al ricordo di quella felicità perduta. Mise la pillola magica sotto la lingua. L'ultimo pensiero lo rivolse a me, che me ne stavo rannicchiata su un letto di paglia; rispetto al proprio dolore, quella preoccupazione fu come un vento leggero che gli scompigliava i capelli. Con l'effetto della droga sintetica finimmo a fare l'amore su una nuvola, il cielo era limpido come acqua di mare.
Ci tuffammo dentro.
Perché ti hanno rapita?
Poi, si spense beato.

RapitaWhere stories live. Discover now