9. VISIONI

291 22 10
                                    

9

Il viaggio si rivelò più lungo di quanto mi aspettassi. Mi sembrò che si fossero messi a perdere tempo, come se procedessimo a zig zag.
Per distrarmi, feci un gioco mentale che mi aiutava da bambina nei momenti difficili. Quando capitava di dover andare in un luogo che odiavo, immaginavo cosa avrei fatto in quel frangente se non fossi stata costretta ad andare dal dentista, o a trovare uno zio anziano con i miei genitori. Il pensiero della mia vita normale mi tranquillizzava. Così in quel momento chiusi gli occhi e immaginai cos'avrei fatto il giorno prima se non fossi stata rapita, indugiando sui dettagli.
La visione fu pressappoco questa: esco trafelata dalla banca mentre corro a prendere Emma. Indosso uno scamiciato di jeans e delle ballerine di tessuto blu, senza calze. Sono struccata e ho i capelli raccolti in un morbido chignon.
«Se-se-sei sempre in ri-ri-tatatatardo m-m-mamma.»
Emma balbetta sempre in maniera più marcata il giorno in cui andiamo dal logopedista, sembra farlo apposta. La abbraccio, la bacio e le dico di sbrigarsi perché siamo in ritardo.
Le educatrici del doposcuola mi salutano proprio perché devono. Mi sembra di udire i loro odiosi commenti appena esco dalla struttura:
«Come può venire in mente a certa gente di mettere al mondo dei figli se poi non sanno gestirli?»
«Sarà l'età...»
Ridacchiano.
«Al paese di mio padre, in Sicilia, alla sua età sono già nonne.»
«Dici che ha già compiuto i cinquanta?»
«Dipende da come la guardi. Di spalle no, ma di faccia... Se la becchi la mattinata storta ne dimostra pure sessanta.»
Ridono le stronze, ma invecchieranno pure loro. Ah se invecchieranno! Poi riderò io, dall'oltretomba.
Smaltisco in fretta la rabbia per quella digressione e torno alla mia bambina. Ci teniamo per mano mentre prendiamo la metro. A quell'ora c'è molta gente ma un giovane arabo si alza per lasciare il posto a Emma.
«Parlano tanto male di voi, ma siete gli unici cui è rimasto un briciolo di buona educazione».  Il ragazzo sorride gentile ma ha un punto di domanda negli occhi; ho il vizio di parlare velocemente e gli stranieri spesso faticano a capire ciò che dico. Mi riprometto di andare dal logopedista anch'io.
Ricambio il sorriso.
«Emma, ringrazia questo bravo signore.»
Lei ringrazia senza balbettare. Apre il Topolino che ho acquistato dal giornalaio insieme ai biglietti della metro e comincia a leggere. Tiro fuori l'iPhone dalla borsa ma mi accorgo di avere dimenticato le cuffie a casa. Niente musica questa volta, impreco tra me e me. Mi rifiuto di infognarmi sui social, la metro è piena di gente che sorride al telefonino anziché al compagno di viaggio. La trovo insopportabile e mi sforzo di non scendere a quel livello. Distolgo lo sguardo da Emma, chiudo la borsa con la cerniera e osservo le persone ammassate intorno a me, questa gente stanca, sudata, una folla di schiavi moderni che attraversa la città dopo una giornata trascorsa gobba su una scrivania o a servire in un fastfood. Hanno tutti uno smartphone in mano, deve essere la loro unica oasi di pace. D'un tratto una visione si insinua tra i miei pensieri; non è un pensiero pilotato, forse è un ricordo. Un uomo entra nel convoglio e si siede vicino a Emma. Strano, penso, ero convinta che la bambina occupasse l'ultimo di una fila di quattro sedili. L'uomo entra e si siede in quel posto che prima non c'era. Osservo le persone sui sedili di fronte: sono quattro. Anche la fila su cui è seduta Emma è di quattro posti, conto le persone sedute e... sono cinque. Non è possibile, i posti sono quattro ma le persone sedute sono cinque. Mi arrovello su questo pensiero per due lunghe fermate. Mi chiedo come sia possibile che nessuno abbia notato questa anomalia. È allucinante ed è sotto gli occhi di tutti. Però nessuno la vede. Alla fermata di piazzale Loreto scende una valanga di gente e sale una slavina. Tra questi c'è una donna castana, alta, dai lineamenti del tutto neutri. Si avvicina con nonchalance al ragazzo seduto accanto a Emma, nel posto-non posto, e lo saluta. I due si mettono a chiacchierare come se non ci fosse nessuno accanto a loro. Come se su quel vagone viaggiassero solo loro due. Si incontrano senza stupore, come se fosse semplice incontrarsi in una carrozza qualunque, all'ora in cui i convogli passano ogni due minuti. Non sono colleghi, non sono amanti, si incontrano come farebbero due amici che frequentano lo stesso bar. Ma il bar è sempre fermo lì, la metropolitana corre. Osservo questa donna dal viso che potrebbe confondersi con quello di chiunque e quest'uomo che dai tratti potrebbe essere suo fratello, ma anche il mio. Provo ad ascoltare ciò che si dicono, ma non ci riesco. Provo a osservarli meglio, tra di loro non c'è neanche la complicità divertita che lega due amici. Sono due pendolari, ecco cosa sono, su un treno in cui viaggiano solo loro due. Eppure il vagone è pieno. Loro non vedono nessuno. Nessuno vede loro, tranne me.

RapitaKde žijí příběhy. Začni objevovat