14. IL SALTO NEL FUTURO

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In effetti non urlai e non mi dibattei, non potevo credere che quel viaggio temporale potesse avere un fondo di verità. Non mi avrebbero portato nel futuro, a quel punto ero solo curiosa di capire cosa stesse accadendo. Cercai di mantenere il viso a favore delle telecamere, con la speranza che qualcuno mi notasse. Mi accompagnò Pel di Carota, gli altri due ci avevano lasciati all'ingresso della metropolitana e si erano dileguati. Portava sulle spalle uno zaino colmo di prodotti alimentari.
«Sei andato a fare la spesa prima di portarmi nel futuro?» lo stuzzicai.
«Lascia perdere, mamma» sospirò Dagmos.
«Siete davvero ridicoli, è giusto che lo sappiate. A proposito, dove sono finiti i tuoi complici?»
«Begli amici. Combinano i guai e poi lasciano a me il compito di risolverli» sbuffò.
Timbrammo i biglietti e scendemmo con calma le scale.
«Si può sapere dove mi stai portando?»
Pel di Carota fece roteare gli occhi.
«Scusami, sarò più precisa: "quando" mi stai portando?»
«Non sono autorizzato a dirtelo.»
«YouTuber del cazzo, meriteresti un castigo colossale. Ah! Se fossi tua madre!»
«Insisti con questa parola, non so nemmeno cosa sia un YouTuber» ribatté seccato.
«Mi stupisce, uomo del futuro, scoprire che nella sua epoca lontana non esiste YouTube. E cosa mi dice di internet? Google? Le dice qualcosa?»
Dagmos mi guardò disorientato. «Direi proprio di no.»
Salimmo sul terzo vagone.
«Non hai caldo con quel giubbotto? Ci sono almeno trenta gradi oggi.»
«Caldo? Direi freddo, piuttosto.»
D'istinto pensai che se la stesse proprio spassando a prendermi in giro, però osservandolo meglio notai che non sembrava affatto accaldato; non aveva un filo di sudore addosso. Io grondavo.
«Allora, fuori l'anno.»
«Solo se mi prometti che non lo dirai a nessuno.»
Mi guardai intorno.
«E a chi dovrei dirlo?»
Solo a quel punto realizzai che il vagone era vuoto. Eppure quando ci eravamo saliti era strapieno. Mi assalì la nausea.
«Allora?» lo incalzai, dissimulando il panico.
«Mille anni secchi, mamma. Stai per balzare nel 3017: 17 maggio 3017, per la precisione. Mi dispiace» aggiunse mortificato.
«Per mille anni? Sono altre le cose per cui dovresti dispiacerti» sdrammatizzai.
Superammo le fermate di Loreto e Caiazzo. La metropolitana si era trasformata in un deserto torrido e desolato. Intravidi solo due persone nel vagone prima del nostro.
«Senti» bisbigliai «dove sono finiti tutti quanti?»
Iniziai ad avere la tachicardia, il caldo si fece soffocante. Mi guardai intorno, il vagone era vuoto ed eravamo all'altezza della Stazione Centrale, una cosa impossibile per un giorno feriale all'ora di punta. Avevo cercato l'orologio della stazione quando avevamo preso la metro; la banchina era piena, ed erano le 5 e 20 del pomeriggio.
«Forse hanno fatto evacuare la metropolitana. Ci sarà stato qualche attentato» riflettei a voce alta.
«In Italia? Non vi si fila nessuno, mamma, nemmeno l'Isis. Non ci sarà nessun attentato in Italia per i prossimi settantacinque anni. Stai tranquilla.»
Lo guardai sbalordita.
«Fino a quando non arriverà quel disastro mondiale, insomma...» esitò. «Vi raderanno al suolo, ma per sbaglio.»
Lo mandai al diavolo.
«Sta prendendo fuoco questo diavolo di treno?»
Iniziai a sventagliarmi con le mani per non svenire, sperando che si trattasse di una scalmana. Avrei preferito la menopausa a quell'incubo che andava sempre più solidificandosi.
Dagmos guardò fuori dal finestrino, un sorriso triste gli si dipinse sul volto.
«Ci siamo. Buona fortuna, mamma» disse baciandomi su una guancia. «Ricordati, non è colpa mia. Escludimi dalle tue maledizioni se puoi». Mi infilò un paio di occhiali scuri che portava nel taschino interno del giubbotto. «Non toglierli per nessun motivo, almeno finché resterai nella città alta; si rischia la foratura della retina senza protettore interno.»
La metropolitana si arrestò.
Dagmos mi voltò le spalle e scese come se non mi avesse mai visto prima; provai a fermarlo senza successo. Mi precipitai fuori dal treno. Un sole basso mi inondò di luce e calore. Mi schermai gli occhi con le mani. Senza occhiali sarei diventata cieca davvero. Scesi sulla banchina. Ebbi una vertigine. Il pavimento non esisteva, ero sospesa a un'altezza spaventosa; la cima di una montagna. Alcune persone mi sfilarono accanto. Camminavano spedite su quel pavimento invisibile. Erano tutte alte, longilinee; indossavano abiti dai colori tenui e il taglio semplice. Battei i piedi per terra. La superficie, di una trasparenza indicibile, risultò molto più solida di quanto sembrasse. Distolsi lo sguardo dallo strapiombo sottostante o avrei vomitato. Mi guardai intorno, del tutto spaesata. Quella non era la stazione centrale di Milano e non mi trovavo nell'epoca da cui ero partita. In nessun posto al mondo esistevano costruzioni di quel tipo, a quell'altezza vertiginosa. Impressi più che potei nella mente i dettagli del luogo in cui mi trovavo. Provai a ricordare il numero lunghissimo che avevo sentito pronunciare ai ragazzi, lo avevo ripetuto fino allo sfinimento, ma in quel momento mi sfuggì; ero sotto shock. Inspirai profondamente. Lo avrei ricordato senz'altro più avanti. Se avevo una possibilità di tornare a casa, era legata a quel luogo e al numero lunghissimo che continuava a sfuggirmi e che sapeva di coordinate. Mi guardai intorno, riconobbi il profilo delle Prealpi che si stagliavano a nord. Sembravano più basse di quanto le ricordassi, ma non le avevo mai osservate da una simile altezza. Il punto massimo su cui ero salita a Milano era il diciannovesimo piano del palazzo della regione. In quel momento mi trovavo a qualche migliaio di metri dal suolo. Osservai il binario del treno, costituito da un'unica rotaia di un materiale traslucido del tutto sconosciuto. Aveva una struttura solida, ma allo stesso tempo anche fluida e di un colore che non avrei saputo definire. Arrivò un convoglio, della stessa consistenza cristallina di tutto il resto. Le persone scesero senza badare allo strapiombo sotto i loro piedi. Il treno ripartì a una velocità così elevata che sembrò sparire nel nulla. Nessuno fece caso a me. Passavano tutti dritti, senza notarmi, nonostante il mio aspetto fosse ben diverso dal loro. Oltre alla tuta da ginnastica con le strisce laterali, anche i miei lineamenti irregolari stridevano con i loro, così omogenei e neutri. Ed erano tutti molto più giovani di me.
Riabbassai lo sguardo, l'abisso sotto i piedi mi paralizzò.  L'idea di camminare sospesa a chissà quanti mila metri da terra mi apparve inconcepibile. Mi sedetti in un angolo della stazione, respirai quell'aria leggera e inodore. Tornai a guardare giù cercando il coraggio di cui disponevo. Sul fondo di quella specie di valle si vedeva qualcosa. Come degli stabilimenti ammassati, forse dei grattacieli. Non aveva senso rimanere lì imbambolata; le persone camminavano spedite senza che gli accadesse nulla. Non c'era motivo per cui ai miei piedi si dovesse aprire una voragine.
Nell'aria non volava una mosca, il silenzio appariva irreale. Nessuno tintinnio di tacchi, non una voce, non uno squillo. Nemmeno i treni emettevano alcun rumore e quelle persone non si parlavano. Mi incamminai seguendo i passi di chi pioveva dai binari; quando giunsi davanti all'uscita, mi fu bloccato l'accesso. Non c'era alcun motivo tangibile per cui non riuscissi a passare, eppure non ci fu verso: venni respinta da una forza che sembrava provenire da dentro me, come un rifiuto psicologico. Non c'era alcun ostacolo, eppure non riuscii a varcare quella soglia. Nessuno notò quella mia difficoltà, nessuno mi degnò di uno sguardo; iniziai a temere di essere diventata trasparente.
D'un tratto, ebbi la visione di una freccia. Scossi il capo, stropicciai gli occhi, li riaprii e quella freccia era ancora lì, in apparenza davanti ai miei occhi ma in realtà dentro la mia mente, a indicarmi una direzione diversa. Esitai; andavano tutti verso l'uscita frontale, con un grosso sforzo di volontà provai a a entrarvi, ma senza successo. Mi rassegnai a seguire l'indicazione che mi era apparsa nel cervello.
Senza capire in che modo, passai dalla luce al buio; finii, senza avere il tempo di completare un passo, in un luogo cupo, dall'aria torbida, maleodorante. L'esatto contrario di quello in cui mi trovavo un attimo prima. Alzai lo sguardo, non vidi altro che grattacieli altissimi dall'aspetto fatiscente. Sembravano le rovine di una civiltà esistita mille anni prima. Gli appartamenti erano privi di finestre, da alcuni fuoriuscivano delle strane piante rampicanti. L'aria sapeva di orina, escrementi e vomito. Presi una direzione a caso cercando uno spiraglio che mi consentisse di guardare oltre i grattacieli; avevo bisogno di vedere il cielo. Quei grattacieli, alti come non ne avevo mai visti, erano così ammassati e imponenti che non lasciavano filtrare la luce del sole.
«Bzzzzzzzzzz?»
Mi voltai spaventata.
Era la prima voce che udivo da quando ero finita, dovetti ammetterlo, nel 3017.

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