10. Fiori di lillà

8.8K 670 70
                                    

Liam


«Sono le dieci e quaranta, Mr. Carter Wright. Tra meno di venti minuti avrà inizio l'udienza; non voglio metterle fretta ma deve ancora chiamare quelli della Brooks & Brooks e leggere l'ultimo fascicolo su Mr. Fry...». Diane era terribilmente irrequieta quella mattina e il suo continuo andirivieni dal mio ufficio accompagnato agli sguardi preoccupati che mi lanciava di soppiatto, convinta che io non me ne accorgessi, non aiutavano certo a calmare i miei nervi già a fior di pelle.

Lasciai perdere la mail che da dieci minuti buoni stavo cercando di concludere con scarso successo e alzai esasperato lo sguardo. «Cosa c'è ancora, Diane?»

Mi guardò dubbiosa, gli occhi indagatori e le braccia strette attorno alla sua, o per meglio dire mia, agenda voluminosa.

«Non ha messo la cravatta stamattina. Chiamo Inés e le chiedo di portargliene una? Grigio scuro? Vuole anche una camicia bianca pulita?»

Abbassai lo sguardo e fissai stranito il cotone verde pallido della camicia che indossavo, camicia che non ricordavo neanche di possedere.

Che mi stava succedendo?

«Lascio fare a te, Diane. Ora per favore concedimi un minuto di respiro», la congedai infastidito.

Mi pentii quasi subito del modo scortese con cui mi ero rivolto a quella santa donna che era la mia segretaria. Probabilmente se io fossi stato nei suoi panni mi sarei già macchiato di omicidio nei confronti del mio caro superiore, ovvero il sottoscritto.

Dovevo apparire davvero insopportabile agli occhi degli altri: posizione di spicco, conto in banca straripante, auto di lusso e resort esclusivi. E stronzaggine acuta inclusa nel pacchetto.

La triste verità però era un'altra: avvocato ultratrentenne, divorziato con figlia, pochi amici, famiglia lontana e un appartamento vuoto.

Mi domandai da quando fossi così diventato un amante dell'autocommiserazione. Mi ero sempre goduto quello che avevo, forse lo avevo fatto in modo superficiale ed egoistico, ma mi bastava così, mi andava bene così.

Allora cos'era cambiato? Quando avevo iniziato ad aspirare ad una vita che assomigliasse di più a quella dei miei genitori? Sembrava un controsenso, aspirare ora, a trentaquattro anni, alla vita da cui a diciotto era fuggito senza voltarmi indietro.

Eppure ci avevo già provato e il fallimento si palesava sotto forma dell'assegno di mantenimento a tre zeri che ogni mese dovevo versare per mantenere una figlia che non conoscevo e una ex moglie verso cui non provavo altro che rancore.

Tiffany era una spocchiosa ragazzina abituata ad avere un'autista da schiavizzare e un padre con cui bastavano due moine per poter spillare continuamente denaro.

Eppure era terribilmente bella. Si aggirava per il campus a mento alto, i sandali che ticchettavano al suo passaggio e uno sguardo altezzoso celato dalle lenti scure di un paio di ampi occhiali da sole con la montatura ad ali di farfalla.

Ai miei occhi di ragazzo povero di provincia lei rappresentava tutto ciò a cui io aspiravo. Ovviamente io ai tempi, matricola con le camicie in flanella e i libri di seconda mano, non avevo alcuna possibilità di avvicinarmi a lei e così mi limitavo a fissarla di soppiatto come si fa con gli animali più rari ed esotici allo zoo.

Tutto cambiò quando Mildred, migliore amica di Tiffany, iniziò a frequentare Matt e così, grazie ad un'uscita a quattro, ci ritrovammo per la prima volta faccia a faccia.

Il nostro primo incontro fu disastroso, lei si limitò a salutarmi con fare altero dopo che ci presentarono l'uno all'altro e poi passò tutta la sera a bisbigliare all'orecchio di Mildred, a fissarsi le unghie laccate di smalto lucido e a rigirare nel piatto le tre tristi foglie di insalata che aveva ordinato per cena.

Se son rose fioriranno altrimenti...in bocca al lupo!Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora