EXTRA - Amanita Phalloides

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Zoe

Quando ero una bambina mi piaceva osservare le persone che incontravo e ogni volta mi domandavo se fossero cattive. Credo che ciò sia nato da tutto quel parlare che Nonna faceva riguardo alla brutta fine che attendeva le persone cattive. Mi chiedevo se la bidella della mia scuola, l'insegnante di karate o l'autista dell'autobus fossero brave persone o, se una volta riposta la loro divisa, conducessero una seconda vita all'insegna della criminalità. Mi affascinava il lato nascosto e potenzialmente maligno che le persone nascondono. Immaginare che la fragile Mrs. Richardson dopo averci consegnato il latte andasse a casa a versare una piccola dose quotidiana di veleno per topi nella zuppa dell'odiato marito me la faceva sembrare più umana, più simpatica.

Ho raccontato questi miei pensieri ad una sola persona in tutta la mia vita ed ora essa si rifiuta di vedermi o farmi avvicinare a lei, nonostante tutti i soldi che avevo investito nella terapia psicoanalitica. Mi sorprendo ancora oggi di come funzioni la mia mente, ma ho smesso di chiedermi perché essa spaventi così tanto gli altri. Lo percepisco, l'isolamento mi piace non solo perché sono una solitaria. Non mi piace come mi fanno sentire gli sguardi degli altri, i loro giudizi silenziosi ma impietosi, le loro convenzioni a cui conformarsi per essere uguali a tutti gli altri, membri accettati e rispettabili della società. Ma quale rispetto? Tutti sempre a puntare il dito contro la diversità, contro qualsiasi cosa si discosti dalla nostra sbagliata concezione di cosa è normale o cosa non lo è. Tutto è normale, e al tempo stesso nulla. Non esiste la parola normale, perché non esiste un metro di giudizio universale per misurare la normalità di una cosa. Fahrenheit, Kelvin, Watt, Joule. Unità di misura valide globalmente, accettate e adottate da tutti. Nulla di tutto ciò si può applicare alla natura umana, siamo diversi e questo è bellissimo, è imprevedibile. E spaventa.

Oggi è il mio compleanno, festeggio trent'anni e spengo delle candeline immaginarie in solitudine. Vivo nel Maine da sei anni ormai e queste montagne sono diventate la mia casa, la casa che mi sono scelta. Nonostante la strada accidentata e impraticabile con la neve, nonostante il silenzio che a volte pare terrificante tanto rumore fa, nonostante la mia condizione di moderna Raperonzolo. Non l'ho mai ammesso, ma ho sentito la mancanza del mare per lungo tempo prima di abituarmi alla roccia, al ghiaccio e al profumo di pino. Faticavo a prendere sonno e ripensavo costantemente alla mia infanzia, quel periodo d'oro e zucchero filato che a volte mi chiedo se ho vissuto per davvero. Mamma era sempre la prima a tornarmi alla mente, con il suo appuntamento del venerdì dal parrucchiere e le sue mani sempre profumate che mi intrecciavano i capelli, mi lisciavano le pieghe sui vestiti e mi soffiavano il naso. A pensarci a posteriori quello era davvero un gesto d'amore, considerato il suo terrore per i batteri. Papà invece solitamente sorrideva e basta, facendomi trotterellare sulle sue ginocchia, che ricordo come assolutamente scomode, colpa della sua magrezza. Felicity invece correva, cadeva, si rialzava, ballava facendo ruotare la sua gonna rossa. Il mare si infrangeva, si ritirava e io infine riuscivo a prendere sonno.

Adesso non mi succede più, anche perché vado quasi sempre a dormire dopo le tre di notte e il mio sonno assomiglia più ad una perdita di conoscenza. Oggi sono stranamente riposata e le mie occhiaie sono di una delicata sfumatura indaco, invece del solito nero violaceo. Sembro quasi più giovane, nonostante l'anno in più con cui mi sono svegliata. Ho deciso giorni fa che oggi mi sarei presa una pausa dalla scrittura, così il mio computer giace ancora spento sulla scrivania e il telefono è offline, destinato a restare così fino alla mezzanotte. Non voglio ferire nessuno, perlomeno non le poche persone a cui provo a volere bene seppure nel mio modo strampalato e difficile, ma l'unico regalo di cui ho bisogno è un po' di pace. Pace che non sono riuscita pienamente ad avere negli ultimi tre mesi, con il mio soggiorno prima a Plymouth da Flick e poi a Tampa dai miei genitori, seguito da un susseguirsi di appuntamenti legati all'uscita del mio ultimo romanzo breve. Non mi piace molto, ho scritto di meglio, ma il mio editore ne era entusiasta e pare che le vendite siano alle stelle. Usare uno pseudonimo mi aiuta a tenere distante ciò che creo da chi sono veramente. Nei miei libri c'è sempre una parte di Zoe, ma non raccontano di Zoe, non sono Zoe. Quando le persone credono di conoscermi dopo aver letto uno dei miei libri io non posso far altro che aprirmi in uno dei miei celebri sorrisetti derisori. Io stessa non mi conosco; sono una, nessuna e centomila. Figurarsi cosa ne sanno gli altri.

Se son rose fioriranno altrimenti...in bocca al lupo!Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora