Capitolo 12

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Ma quando arriva Derrin?

Mi chiedo per l'ennesima volta. Sconsolata.

In cuor mio speravo di veder comparire il suo ciuffo corvino e i suoi occhi verdi da un momento all'altro. Stavo impazzendo a rimanere chiusa in quella cassa di legno. Sapevo bene che era il solo mio nascondiglio, il mio biglietto per poter rimanere a bordo di quella nave. Ma nonostante i buchi per l'aria, mi sembrava sempre di soffocare e le mie gambe non ne potevano più di stare piegate. Quello spazio era abbastanza grande per fare sì che io mi sedessi con le ginocchia parate contro il mio petto, ma nulla di più.

Ormai erano diversi minuti che non sentivo più sfrigolii di padelle, pentole, e le chiacchiere di Arfo, il cuoco della ciurma. Un uomo largo quanto pesava, che parlava a voce alta da solo, su come insaporire in modo diverso la zuppa del giorno o ricordando vecchie esperienze, e che ogni tanto si sedeva a riposare sopra il mio nascondiglio. Facendomi prendere dei grossi spaventi. Sia mai che sotto il suo peso eccessivo il legno cedesse, e mi schiacciasse come una foglia sotto il peso di una montagna.

Cercavo di passare il mio tempo dormendo, ma quell'eventualità mi faceva fare incubi terribili. Ogni tanto rivedevo anche il volto di mio padre, i suoi occhi lattiginosi, le sue movenze quasi meccaniche e gli incubi peggioravano notevolmente. Non volevo pensare a lui. Né tanto meno al mio passato. Per cui stavo cercando di convincermi di essermi sbagliata, anche se il mio istinto mi voleva far ragionare.

Erano ormai passati tre giorni. Contai sulle dita nella penombra creata dalla luce che filtrava nei buchi per respirare. Altrimenti sarei rimasta al buio e senza aria.

Sì. Questo era il quarto giorno. Derrin veniva a portarmi regolarmente del cibo e ogni tanto, quando il cuoco se ne andava a riposare, mi faceva sgranchire i muscoli intorpiditi da quella posizione.

Non avrei mai preventivato di finire in una situazione simile. Immagino che un topo in gabbia si senta esattamente nel modo in cui mi sento io ora.

Pum. Pum. Pum. Pum.

Sento dei passi avvicinarsi. Deve essere Derrin. Anche se a quanto pare, sembra molto più prudente del solito. Che il cuoco fosse ancora nelle vicinanze?

O forse era proprio lui, che faceva ritorno perché si era dimenticato qualcosa. Non mi sorprenderebbe. Ma i suoi passi erano molto più pesanti di questi e ormai avevo imparato a distinguerli.

No. Sicuramente non era il cuoco.

Attendo che Derrin bussasse per tre volte sul lato superiore della cassa, con il nostro segnale.

Ma quel rumore, che tanto desideravo udire, non arriva. In compenso continuo a sentire quei passi fare su e giù per la stretta cucina.

Trattengo il respiro. Chi può essere? Non era mai sceso nessuno fin quaggiù, eccetto il cuoco, me o Derrin.

Chiudo gli occhi e cerco di concentrarmi. Un sommesso masticare giunge alle mie orecchie.

Qualcuno affonda i denti in qualcosa di solido e succoso.

E poi sento il coperchio della cassa scivolare dal suo incastro. L'aria calda della cucina mi investe in un attimo e spalanco gli occhi. Ma non incontro la figura di Derrin.

Bensì quella di un altro ragazzo. I capelli biondi che facevano a pugni con la pelle abbronzata. Gli occhi marroni che luccicano sorpresi. Il labbro inferiore spaccato a metà da poco, dove una ferita che sta cercando di rimarginarsi fa da sovrana, rovinando quel viso.

Tra i ciuffi biondi compaiono delle orecchie piuttosto grandi e allungate. Il ragazzo tiene in mano una mela verde morsicata.

Finisce di mandar giù il suo boccone ed esclama «Accidenti, questo nascondiglio è già occupato a quanto vedo».

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