Hang in there

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Non era al mio orecchio che hai sussurrato, ma al mio cuore. 

Non hai baciato le mie labbra, ma la mia anima.

Judy Garland


VICTORIA'S POV


<< Charlotte è mia figlia? >>


Domandare - una delle tante parole di origine latina delle quali snobbiamo l'etimologia.

De - mandare - affidare all'interlocutore il proprio desiderio di sapere.

Un seme di raffinata delicatezza, un prezioso segno di fiducia.

Fiducia, quella che Vulkan stava riponendo in me facendomi quella domanda a bruciapelo.

Voleva la verità ed io non avevo alcun motivo di mentirgli, anche se avrei preferito farlo.

La camicia ancora sbottonata a sfiorargli il petto levigato, la cintura pendolante tra i passanti di un pantalone leggermente aperto e lo sguardo impavido di chi è pronto ad assumersi le responsabilità che potrebbero derivare da una curiosità di quel calibro.

<< Io devo saperlo >> continuava a dirmi.

<< Non è possibile che soffra delle stesse crisi che mi hanno rovinato i primi dieci anni di vita. Non può essere una coincidenza >> 

Non me ne aveva mai parlato prima, ma quella confidenza non cambiava le cose.

Lui, ostinato ed audace come sempre.

Io, spiazzata e spezzata dalla potenza del suo sguardo supplichevole e sognante.

Cosa avrei mai potuto dirgli?

Strozzata da una gola arida e graffiante. Zittita da labbra schiuse, incapaci di emettere suoni.

Il proiettarsi di quello che sarebbe potuto essere il nostro futuro, fotogrammi illusori della mia coscienza a velarmi di lacrime gli occhi.

Loro due ad infarinarsi il naso nella nostra cucina, a disperdere briciole di pane per ammirare lo svolazzare dei gabbiani in riva al Bosforo, a condividere un pezzo di dolce in uno storico bar della città, avrebbe presto mutato forma, divenendo pura utopia.

<< No, non lo è >> venne fuori come un sussurro. Balbettai, annientata dalla potenza di quella rivelazione che avrebbe cambiato tutto.

<< Mi dispiace Vulkan >> e non fui abbastanza forte da riuscire a trattenere le lacrime. Provai più volte a ricacciarle alla fonte, strinsi i pugni ed implorai di essere salvata dal turbinio di sensazioni che, invece, mi travolse come un tsunami.

Esplosi in un pianto convulso.

Lacrime ed ancora lacrime. Ne avevo versate a bizzeffe, eppure nessuna aveva avuto lo stesso effetto liberatorio di quella volta. Come se ogni singola goccia estirpasse il tormento che mi portavo dentro.

<< se piangi mi uccidi >> si stava spezzando esattamente come era successo a me quattro anni prima.

Lasciai la mia stanza per raggiungere il bagno ricamato dalle luci della notte. Sollevai il capo per osservarmi allo specchio, stavo diventando il fantasma di me stessa. Appoggiai i palmi al lavabo nella speranza che il freddo marmoreo potesse alleviare il bollore della mia carne. Ero febbricitante, respiravo a fatica .

Aprii il rubinetto, riempii di acqua gelida la conca disegnata dalle mie mani e bagnai il mio viso fino alla radice dei capelli. Un'azione meccanica, ripetuta talmente tante volte da non accorgermi che qualcuno avesse interrotto lo scorrere dell'acqua stringendomi entrambe le mani nelle proprie.

TWICE - Like a stormWhere stories live. Discover now