Il fedele servitore

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Ben ritrovati, gentili signori e signore. Spero abbiate gradito la narrazione del mio collega nel precedente capitolo; ora, come potete immaginare, si torna a parlare di Soverchiatori, e in grande stile.
Lo strano personaggio incontrato poc'anzi era appunto un sicario, ma il mio collega ha taciuto, forse volutamente, il suo nome. Rimedierò subito: egli rispondeva all'appellativo di Gian Giacomo Truffaldini. Dal cognome potreste intuire che si tratta di uno pseudonimo, e qui ci scusiamo, ma ci duole informarvi che non siamo riusciti in nessun modo, e a dispetto di numerosi sforzi, a scoprire la sua vera identità. Pare infatti che la nobile famiglia da cui proveniva abbia fatto cancellare, probabilmente su sua esplicita richiesta, il suo vero nome da ogni registro e da ogni documento relativo al battesimo. Tuttavia siamo riusciti a tracciare le linee generali della sua storia, ed io reputo necessario fare una pausa alla narrazione, che spero sopporterete (dopotutto Manzoni ne ha fatte di ben più lunghe), per rendervi partecipi di tali scoperte.
Il nostro Gian Giacomo (per comodità lo chiameremo così) proveniva, come già detto, da una famiglia di origine benestante, ma caduta in rovina durante la Guerra dei Trent'anni.
Fin da piccolo Giangiacomino aveva mostrato un certo interesse per le armi, gli eserciti, le strategie, in somma per la guerra in generale, e trascorreva le ore giocando con i soldatini o facendo finta di essere un generale dell'esercito spagnolo. La sua famiglia confidava dunque che egli facesse strada nella carriera militare, riscattando così il nome dei suoi antenati; questa idea sorrideva a Gian Giacomo, ed egli cercò fin da subito di far notare le sue doti in campo. In breve tempo riuscì a scalare i gradi dell'esercito, diventando ufficiale a soli 16 anni, e colonnello a 19.
Non sappiamo fino a dove sarebbe arrivato: forse ora studieremmo la storia di un Napoleone italiano, ma fatto sta che la sua carriera fu bruscamente interrotta. Si sa che, specialmente nella nostra cara Italia, quando un personaggio di rilievo si dimostra in qualche misura bravo nello svolgere il proprio lavoro, viene immediatamente eliminato, a volte a causa dell'invidia dei suoi colleghi ovvero nemici, o a volte semplicemente perché risulta scomodo.
La tragica storia di Gian Giacomo rientra nel primo caso. Un suo sottoposto, un certo Alessio Caddimi, giovane alquanto ambizioso, dopo essersi accattivato la fiducia degli alti ufficiali, sparse la voce che Truffaldini stesse progettando di uccidere il generale, uomo rispettato e benvoluto da tutti. Gian Giacomo fu visto con sempre maggiore diffidenza e sospetto, finché un giorno Caddimi asserì di avere la prova della sua colpevolezza.
Affermò infatti che durante la cena Gian Giacomo avrebbe tentato di avvelenare con della stricnina il piatto del generale, fingendo di volergli far assaggiare un liquore e che avrebbero riconosciuto il veleno dal caratteristico odore amaro.
Accadde infatti che Gian Giacomo offerse al generale un bicchiere contenente qualcosa di simile all'attuale Fernet.
Non appena gli ufficiali sentirono l'odore amaro della bevanda, braccarono il colonnello, e lo arrestarono, senza prestare ascolto alle sue spiegazioni.
Questo comportamento può sembrare alquanto irrazionale, ed infatti è proprio così. Ci ha fatto dunque pensare che probabilmente anche gli altri ufficiali, e non solo Alessio, stessero da tempo pensando alla possibilità di togliere dalla circolazione il loro collega, mossi anch'essi dall'invidia. Lasciamo ai lettori di farsi una propria opinione al riguardo, e torniamo a parlare di Truffaldini, che fu sbattuto tosto in carcere (pare che i suoi colleghi non siano stati tanto crudeli, o tanto gentili, a seconda dei punti di vista, da condannarlo a morte).
Trascorse tre anni in quel carcere, vivendo nella totale depravazione assieme ai suoi compagni di sventura, da cui riuscì in breve a farsi rispettare, benché alcuni di loro lo odiassero in quanto si trovavano lì per causa sua; questo disprezzo da parte di codesti detenuti lo faceva pentire di qualcosa per cui fino a prima di entrare lì dentro si era vantato.
Durante il quarto anno Gian Giacomo ricevette una piacevole quanto inaspettata sorpresa: era il 6 dicembre del 1630 e la peste stava imperversando in varie zone d'Italia. Per sua fortuna, l'ex-colonnello prodigio si trovava in un carcere nei Pirenei, e non corse alcun rischio. Per ironia della sorte o per Provvidenza, ne fu colpito violentemente, indovinate un po'! proprio il generale di divisione Alessio Caddimi. Questi, in punto di morte, rivelò in lacrime la sua antica bravata, e in breve Truffaldini fu liberato dal carcere, e gli fu offerto il posto di generale, il sogno che aveva da bambino.
Ma ora non era più bambino, e non era più quello di prima. Rifiutò l'incarico, diffidente verso ciò che già lo aveva tradito e non credendo più agli ideali di giustizia che sempre lo avevano accompagnato, e decise di guadagnarsi da vivere svolgendo l'attività di sicario; poi cambiò la sua identità, assumendo ufficialmente il nome di Gian Giacomo Truffaldini.
Fu a questo punto che probabilmente chiese alla sua famiglia di cancellare il proprio nome dai registri, in quanto era dispiaciuto di aver deliberatamente deluso i suoi parenti. Ma qui occorre spezzare una lancia in sua difesa, perché ci è giunta notizia che egli inviò sempre una percentuale dei suoi guadagni ai genitori e ai fratelli, permettendo loro di vivere più che dignitosamente, perché gli affari per lui andavano a gonfie vele. Da questo momento Gian Giacomo, da vittima di soverchierie, era divenuto egli stesso Soverchiatore.

Delle Soverchierie e dei loro ArteficiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora