Ritirata strategica

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Dalla carrozza era appunto sceso il padre Teopoldo, con il suo solito volto bonario, sebbene un po'pallido e visibilmente preoccupato. Nel caso vi foste chiesti in che modo fosse venuto a conoscenza del duello che si disputava, immagino che ora vi sia chiaro che nulla poteva accadere senza che egli se ne accorgesse, come potete star certi che nulla che egli non voleva accadesse non sarebbe mai neppure potuto passare per l'anticamera dell'avvenire. Il padre Teopoldo avrebbe aspettato questo sfavorevole evento al varco, pronto a fermarlo quando avesse osato fare un passo di troppo.
Pur senza sapere tutto questo, i presenti non potevano fare a meno di percepire l'alone di fausta energia che circondava la figura del frate. Tutti fuorché Renzo, il quale era ormai svenuto.
Quando il padre ebbe appurato che la ferita dello sconfitto non era niente di grave, apparve di gran lunga sollevato, e
stette circa un minuto ad osservare la scena per coglierne i particolari, in modo da dedurre gli avvenimenti precedenti.
Alla fine si rivolse a Gian Giacomo. "Voi, figliolo, m'avete molto deluso. Prendersela con un povero mendicante, in questo modo... è atto più che proditorio, e non s'addice ad un animo nobile quanto il vostro".
"Mi perdoni, padre, ma non ci vedo nulla di sbagliato" ribatté il sicario togliendosi il cappello e accennando un inchino "Costui è un manigoldo, un furfante come se ne vedono pochi in giro. Egli è in realtà un gentiluomo, un ricco signore che risponde al nome di don Tonio, che si camuffa da povero bisognoso, divertendosi non solo a derubare i cittadini e fare concorrenza ai reali indigenti, ma con lo scopo di importunare impunemente gli altri valentuomini, come ad esempio il mio illustre cliente".
Il padre scosse la testa. "Capisco, capisco bene quale vincolo di fedeltà leghi una guardia del corpo al suo datore di lavoro, ma vedete, in quanto sacerdote non posso permettere che sia commesso un omicidio davanti ai miei occhi, o almeno non quando posso impedirlo. E ora vi scongiuro" disse inginocchiandosi lentamente di fronte al carcerato cui anni prima faceva da elemosiniere "vi scongiuro di non perpetrare questo delitto, le cui vittime più dilaniate sarebbero la vostra anima, e quella del conte Attilio. Lasciate che sia io a pensare a questo mendicante".
Il sicario indietreggiò, e si guardò intorno spaesato. Nessun supporto gli giunse dai bravi, che parevano aspettare ordini senza fiatare. Sembravano delle marionette private del giocator di bussolotti che le agita.
Gian Giacomo, forse per la prima volta in tutta la sua vita, si rese conto di non avere la possibilità di portare a termine un incarico, e questo lo amareggiò profondamente. Se comparate a ciò che stava provando adesso, la rabbia e la frustrazione in cui era caduto quando era stato tradito e messo in prigione, erano quasi una gioia sinistra.
In quell'occasione aveva potuto far convergere il suo rancore verso coloro che avevano tramato contro di lui, e lasciar fermentare un inveterato odio verso costoro.
Ora non aveva forme di ripiego, e non poteva far altro che andarsene con la coda fra le gambe. Non poteva mettersi a discutere con il padre Teopoldo, essenzialmente per due motivi: per prima cosa, gli era troppo legato, e in secondo luogo sapeva bene che in uno scontro verbale ne sarebbe uscito sconfitto. Dopotutto il conte Attilio era un fior di galantuomo, e avrebbe compreso.
"Bucefalo! Ombroso! Andiamo." disse, rivolgendosi ai suoi bravi con i loro raffinati soprannomi, e andando a recuperare la spada che poco prima era stata impugnata da Renzo.
Quindi fece un lento e profondo inchino al padre. Poi si voltò, e sparì in fretta nelle tenebre, con i due scagnozzi che gli andavano dietro come segugi.
Quando che fu rimasto solo, il frate, facendosi aiutare dal vetturino, caricò Renzo sulla carrozza, per poi salirvi sopra anch'egli e dare l'ordine di partire.
"Mi raccomando, fate presto!" diceva di tanto in tanto al conducente, il quale, non lo abbiamo detto, era un giovane frate novizio, che era stato preso sotto l'egida di Teopoldo.
Durante il viaggio Renzo riprese bel bello conoscenza. Quando si rese conto di dove fosse, mormorò: "Padre, mi avete salvato. Grazie infinite". Intanto si era accorto che sul proprio torace era appoggiato il ciuffo finto che aveva usato per camuffarsi, e capì che Teopoldo aveva capito.
"Riposatevi!" disse perentorio il padre.
Renzo non aveva certo voglia di stancarsi, ma ne aveva ancora meno di star zitto. Quanto è difficile mettere a tacere un animo loquace!
"Padre, lo so, lo so: sono un pezzo d'asino! Irrimediabile!" riprese "avrei dovuto stare al mio posto, condurre il mio piano con calma, e invece mi sono lasciato trasportare dalla foga, dallo spirito di giustizia..." pronunciò questa parola con ribrezzo, come se volesse starne alla larga il più possibile "e mi sono cacciato ne'guai. Un vizio che non ho mai perso dalla gioventù!" Si mise a piangere sommessamente, per un po'di tempo, poi si acquietò. Il padre Teopoldo restò in silenzio: ritenne che fosse meglio lasciarlo sfogare.
La carrozza correva per ciglioni accidentati, e ogni tanto si avvertiva qualche scossone, che faceva sobbalzare tutta la carrozza: evidentemente l'improvvisato palafreniere provava un certo qual gusto nel far muovere la carrozza a velocità massima.
Una scossa particolarmente vigorosa fece riscuotere in parte Renzo da quello stato commiserabile.
"Ma, padre, cosa vi ha spinto a scegliere una sì malridotta strada per andare al convento?" domandò stralunandosi gli occhi.
"Non stiamo affatto andando al convento." rispose il frate. "Ho riflettuto, e ho pensato di farvi raggiungere un mio vecchio amico, che saprà proteggervi a dovere, e vi farà condurre una vita serena. Non vi affannate a pensare a prodezze, per un po'. Credo che ne abbiate avute abbastanza, questa sera." Al contrario di quanto Renzo si aspettasse, il frate parlava con dolcezza. Sembrava non fosse minimamente arrabbiato, e da lui non traspariva nulla che non fosse riconducibile alla pura bontà. "Vi farò arrivare in un luogo dove nessuno verrà a cercarvi: lo Stato della Chiesa."
Renzo sussultò. "Contate di portarmi subito fin laggiù?"
"No, ci mancherebbe...già son certo che subirò un solenne rimprovero, giù al convento, per essermi assentato in quest'ora. L'abate è un santo, quanto volete... ma certi santi possono, talvolta, non accorgersi che le santissime regole monastiche cui giurai obbedienza e profonda lealtà anni or sono mi avrebbero in questo caso impedito di salvarvi la vita".
"La nostra meta è una stazione di servizio, dove potrete rifocillarvi, passare la notte e partire l'indomani."
Renzo rise di questa riflessione del frate: ovviamente, da ribelle, non poteva che provare simpatia per un frate che non andava d'accordo con le regole. La sua aria lieta scomparve bruscamente al sopraggiungere di un timore. "E Gervaso? Non partirò senza mio fratello!" disse con fermezza.
Naturalmente al padre Teopoldo un dettaglio simile non poteva sfuggire. Aveva condotto delle ricerche per comprendere quale fosse la condizione dei due sedicenti fratelli. Stranamente non era riuscito a scoprire la vera identità di Renzo, che per lui restava don Tonio, ma aveva appurato che tra i due "fratelli" vi era un rapporto molto saldo. Poiché aveva notato già dal colloquio con Renzo di non riuscire a definire quale dei due fosse il tutore dell'altro era rimasto commosso, e aveva preso a cuore la protezione di entrambi.
Per questa ragione Gervaso aspettava già il signor don Tonio alla stazione.
Tranquillizzato su questo punto, Renzo interrogò più dettagliatamente il frate sul vecchio amico di cui parlava, e sulla città in cui viveva.
Un sorriso, che su qualunque altra faccia sarebbe sembrato un ghigno, comparve su quella di Teopoldo. "Oh, vedrete che non resterete deluso. Questo mio amico è un personaggio di grande spirito, nonché indiscusso galantuomo! Sono sicuro che andrete d'accordo. Vi troverà qualcosa di che vivere, e starete presso di lui finché le acque non si saranno calmate, e finché non vi sarete ristabilito dal trauma che avete evidentemente subito. Quanto al loco in cui vive, si tratta di una cittadina di antiche origini come ce ne sono tante in giro, e che va germogliando e fiorendo sotto il governo pontificio. M'immagino che n'abbiate sentito parlare: si chiama Rimini.
Renzo aveva in effetti sentito parlare della città, a cui legava la sbiadita figura di uno stravagante despota che lì aveva esercitato il suo impero all'incirca due secoli prima, dilettandosi di tanto in tanto in qualche atto di Soverchieria, allora passatempo ancora più popolare tra i ricchi signori. Ma ora Renzo non aveva voglia di pensare a queste cose.
"Mi sta bene!" disse "vada pure per Rimini!"

Delle Soverchierie e dei loro ArteficiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora