Cambiamento

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"Ebbene?" domandò il conte Attilio senza lasciar trasparire una speranza che, del resto, non possedeva.
Gian Giacomo, con aria compunta e cogitabonda, si inchinò profondamente. Questa pratica orientaleggiante, che si è già vista compiere dal sicario in varie occasioni, non sapremmo proprio dire da che cosa derivasse, ma probabilmente le nostre ipotesi avrebbero il solo effetto di annoiare il lettore, indi per cui le taceremo.
In quel momento, il colonnello che era in lui prese il sopravvento, e si mise a parlare in quella maniera disconnessa e cadenzata che ben si addice al ritmo di una marcia.
"Signore...non ho l'ardire di costruire vani giri di parole. Ho fallito: ho fallito ed ho fallato, e Dio solo sa quale sia il mio rimorso. Mi perdoni, ma quando mi son visto dinanzi il padre Teopoldo, con la sua consueta espressione compassionevole, tanto indifesa all'apparenza, quanto micidiale per l'anima d'un povero verme come me, non mi è riuscito di far nulla. Oramai per me la sola speranza è la morte, e in essa il mio pensiero rifugge continuamente, anelando una possibilità di conforto da questa misera solitudine di una vita cui sono pienamente refrattario".
Il conte Attilio, anche se non si aspettava, né provava il desiderio, di assistere ad un simile sfogo, essendo tuttavia abituato ad ascoltare gente filosofeggiare pessimisticamente, malattia da cui egli era era completamente vaccinato, e che guardava dall'alto della sua Soverchieria come un cane osserverebbe un indaffarato formicaio ignaro della zampa che stia per decretare l'inutilità di tutti gli sforzi dei suoi abitanti, votandoli alla distruzione, decise di indulgere sull'accalorato discorso del servitore, di cui del resto aveva trattenuto solo ciò che gli interessava.
"Non si rattristi: quando un frate di tale portata si accanisce, bisogna lasciarlo cuocere nel suo brodo, come diceva sempre il mio caro zio" e qui assunse per un attimo un'aria mesta, che potremmo interpretare come nostalgica, che sempre in un attimo svanì.
"D'altronde" continuò "ho sempre avuto il grillo che quel padre Teopoldo, gran galantuomo e clericale rispettoso, fosse ad ogni modo una volpe, anzi un volpone, ed ora ne abbiamo la conferma. Non mi spiego il motivo per cui gli stia tanto a cuore quel furfante di don Tonio, ma...affaracci suoi! Si vede che era in cerca di grane. In ogni caso: adesso che fine ha fatto quel mascalzone?"
"Signor conte, non ne ho la minima idea. Immagino se la sia svignata".
"Se è così, possiamo star certi che non ci recherà più alcun fastidio. Il vigliacco ha preso un bello spavento, e si sarà rintanato a leccarsi le ferite." Per quanto cercasse di essere convincente, a Gian Giacomo non poté sfuggire una cert'aria di rassegnazione dipinta sul volto del conte.
"Lei, signore, non la racconta giusta. Dice così, ma la realtà è che lei è preoccupato. Le rammento che basta un suo ordine, e io sarò pronto a trucidare, svellere organi e praticare tortura su qualunque nemico in circolazione. La morte, anche di altre persone, è sempre fonte di conforto e speranza".
"No, Truffaldini, sto bene. Voi, piuttosto, mi sembrate molto più sadico di quando vi lasciai l'ultima volta".
Gian Giacomo si affrettò a spiegare con voce melliflua: "Temo, signore, che l'aver fallito così miseramente una missione abbia fatto riemergere in me il mio antico spirito. Questa era la mia maniera di pensare e di lavorare ai tempi della carriera militare, e che ho sempre trovata poco consona ad un sicario, professione che, come dico sempre, è molto più elegante e raffinata dell'eroe di guerra...ma non è mia intenzione tediarvi: se non c'è altro, io mi ritiro".
"Aspettate, Truffaldini...in effetti, c'è qualcosa che mi turba, ed è la terribile aria di cambiamento che si respira in questi giorni".
"Cambiamento?"
"Precisamente. Sappiate che se vi parlo di ciò è perché so che con voi posso confidarmi in piena tranquillità. Ebbene, io temo che i bei tempi siano ormai prossimi alla fine. L'invincibile esercito spagnolo, che in tutta la mia vita non ho mai visto tremare di fronte a nessuno, moro, ariano o ugonotto che fosse, è ora in difficoltà, e, checché ne dicano il signor castellano o il signor Governatore, io non sono molto fiducioso; i piccoli criminali come quel Tonio, un tempo presi di mira come capro espiatorio pei nostri efferati piani, utilissimi nel rattoppare ove necessario gli errori che potevamo commettere, ora vengono per primi aiutati dalle autorità religiose (se seguissero per lettera le Scritture (1), esse dovrebbero essere ben più vicine a noi "pubblicani", a noi "pecore smarrite", piuttosto che a quei miseri ladruncoli o bravacci); infine, stiamo assistendo all'estinzione delle Soverchierie: dov'è finito l'amore per i valori della buona vecchia società? Possibile che nessuno abbia letto quella pubblicazione? Vedo ovunque solo infimi e deboli tentativi di gente che si atteggia a Soverchiatori. Nessun'imposizione di rispetto da parte nostra, nessuna connivenza da parte loro, niente regalie, solo corruzione e nepotismi a vantaggio delle classi emergenti."
Gian Giacomo aveva ascoltato con attenzione, tuttavia non riusciva a comprendere il nocciolo della questione. Il monologo del conte Attilio, sebbene carico di sentimento, gli sembrava sconclusionato. Solo dopo anni avrebbe capito cosa il conte intendesse dire.
"Se mi consente, c'è qualcosa che questo umile servitore, già colpevole ed abietto, potrebbe fare per migliorare le cose e rendersi nuovamente utile in qualche misura?"
Il conte Attilio si calmò, come se la voce di Gian Giacomo gli avesse fatto tornare in mente di non essere solo nella stanza.
"Chiamatemi qui Gioacchino" disse tenendo lo sguardo fisso su di un grande arazzo raffigurante il Concilio di Trento.
In breve tempo si videro le conseguenze dell'ordine impartito, e Gioacchino fu pronto a riceverne uno nuovo.
"Consegnate a ognuno de'miei uomini di fiducia un invito a cena per questa domenica. Nell'invito debbono esserci scritte testuali parole:
Il presente si dirige con fermezza a tutti coloro che intendono rinunciare a seguire le altrui volontà, e desiderano, con magnificenza di spirito, militare per la somma e vera Soverchieria, perché assumano l'armatura insigne dell'atarassia, adempiendola con particolarissima cura, e la portino a perfezione con la perseveranza. (2)
Gioacchino domandò, con la degna impassibilità di cui solo un maggiordomo era capace: "Tra i suoi uomini di fiducia è compreso il signor Aaroni?"
"Aaroni? Perché no? Sì, voglio che partecipi anch'egli". Detto questo, si volse a contemplare lo stesso arazzo. Un'espressione di antico orgoglio si disegnò sul suo volto.

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Note:
(1) Mc 2, 13-17
(2) Parodia della Regola dei Cavalieri Templari.

Delle Soverchierie e dei loro ArteficiDove le storie prendono vita. Scoprilo ora