Ambigua consegna di una lettera anonima

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Certo, tigri e leoni sono grandiosi animali,
ma non ho mai visto uno sciacallo chiuso in un circo.
                                                         Vl'eats, fortunato deceduto (1)

Rimini, martedì 25 maggio 1643

Col passare del tempo (in realtà in meno di una settimana) Renzo decise che non sarebbe rimasto a lungo in quel monastero, ed esaminò attentamente la possibilità di togliere il disturbo. A quanto pare, nulla gli era rimasto di quella sensazione di struggimento e rimorso che aveva provato durante il viaggio con padre Teopoldo. Quel tragitto gli appariva come un lontano incubo, e Renzo guardava ora verso il futuro.
Rimini in quel tempo aveva da parecchio smesso di avere un ruolo politico rilevante (per la verità, anche all'epoca della signoria malatestiana, il suo prestigio superava a fatica l'area di una regione), e così la città si faceva pigramente trainare, sotto il governo pontificio, dal carro della vicina Ravenna, contemplando con volto stanco e trasognato il suo Arco d'Augusto o il Ponte di Tiberio, come una piccola Roma saccheggiata, conscia che il futuro non la degnerà di uno sguardo, e che si rifugia dunque nel suo glorioso passato. Sembrava che ogni mattone, ogni sasso, ogni tronco recasse scritto a chiare lettere: 'Qui la storia è già stata'. Tutto ciò, naturalmente, accade anche alle persone.
Il monastero in cui Renzo e Gervaso furono ospitati rispecchiava pienamente la condizione della città. Non che fosse vecchio e trasandato, anzi, era uno dei più recentemente costruiti e meglio curati, tanto da sembrare una fortezza molto più che un monastero. Non una fortezza minacciosa, bensì una struttura dall'aspetto materno e protettivo. Renzo capì perché a padre Teopoldo fosse venuto in mente che quel posto fosse il più adatto a nasconderlo.
Tuttavia, la città aveva infuso in quelle mura una parte di sé, ed esse apparivano vetuste quando non avevano che una trentina d'anni (che, per un monastero, sono veramente pochi).
Ben presto Renzo cominciò ad accusare una certa sofferenza nel trascorrere il tempo all'interno del monastero. Le orazioni mattutine, i pasti frugali, il coprifuoco, e soprattutto l'immensa monotonia di quella vita non facevano per lui.
Un giorno, però, mentre era in città per fare scorta di viveri (poiché Renzo era uno dei pochi abitanti del monastero a non vivere in clausura, e per questo i monaci non si lasciavano mai sfuggire occasione di mandarlo a sbrigare qualche lavoretto), fu avvicinato da un muscoloso e calvo energumeno elegantemente vestito, che gli chiese indicazioni per il Duomo. Nel rispondere che non era di quelle parti, agli occhi di Renzo non sfuggì un rapido movimento delle mani del signore, che avevano fatto scivolare un involucro di carta all'interno della sacca di Renzo. L'energumeno si accorse di essere stato scoperto, e prima che Renzo potesse domandare qualunque cosa, si allontanò camminando all'indietro a lunghe falcate, con sul volto un'espressione tronfia, di chi la sa lunga, mescolandosi tra la folla. La scena, per uno spettatore, avrebbe avuto del ridicolo. Ma Renzo, in quel momento, avrebbe fatto di tutto tranne che mettersi a ridere. Immediatamente fu assalito dai dubbi. E così fuggire non aveva funzionato. Davvero lo volevano morto fino a quel punto? Davvero sarebbe dovuto rimanere per sempre nascosto come un coniglio? No, questo mai. Avrebbe preferito... cosa avrebbe preferito?
Morire?
Una volta avrebbe detto di sì, senza soffermarsi. Ma ora non era più lo stesso, e se ne rendeva conto. Non voleva più fare l'eroe, difendere ideali utopistici mettendo in gioco la propria vita. Erano cose da giovani. E lui? Forse, invecchiando, stava diventando più saggio. O più cinico. O forse, era la stessa cosa.
Mentre si dedicava a tali elucubrazioni, gli sovvenne alla mente l'involucro di carta che lo sconosciuto gli aveva infilato nella sacca. Come aveva fatto a dimenticarsene? Benché fosse comprensibilmente impaziente, decise che lo avrebbe esaminato solo una volta giunto al suo alloggio, quando sarebbe stato completamente solo. Intanto se lo sistemò in tasca, poiché avrebbe dovuto lasciare la sacca al padre guardiano.
Tornato al monastero, fu accolto da un grido gioioso:
"O fratello mio! Eccoti, finalmente. Non indovinerai mai cosa ho imparato oggi!"
Gervaso, al contrario di Renzo, sembrava pienamente soddisfatto della propria sistemazione, e in particolar modo lo allietava assistere alle lezioni di matematica, astronomia e persino latino che si tenevano per i seminaristi. Questi ultimi lo avevano un giorno notato mentre li osservava con la bocca aperta da fuori dalla finestra, e gli proposero di unirsi a loro. Gervaso, non si sa bene se in quel momento abile ad agire, accettò volentieri l'offerta, e per lui fu una fortuna. Per la prima volta in tutta la sua vita il pover'uomo poté avere l'accesso agli studi, e se ne appassionò. So che potrebbe sembrare strano ai miei lettori. "Ma come?" direte "È mai possibile che uno zotico, un illetterato, un Gervaso possa provare piacere nel praticare un'attività che oggigiorno disgusta milioni di persone alfabetizzate?"
Sì, e senza stare a perder tempo in argomentazioni, vi propongo un esperimento che lessi una volta in un libro (2) e che mi piacque molto. Se siete alunni di scuola e per qualunque ragione doveste mancare della tanto rarefatta 'voglia di studiare', provatevi a sedere e a restare senza far nulla per dieci, venti, trenta minuti. Alla fine, è molto probabile che vi getterete sui libri, straziati dalla noia.
Simile fu l'esperienza di Gervaso, che dopo aver passato una vita senza far nulla o quasi nulla (le sue condizioni fisiche e psicologiche gli permettevano di lavorare ben poco), trovò nello studio un'attività a lui più idonea.
Forse non serviva aprire una parentesi su un così marginale personaggio, ma ne abbiamo approfittato per esprimere due concetti che, per quanto banali, ci sono molto cari: l'ozio distrugge, il lavoro ricostruisce.
Non appena Renzo fu lasciato stare da Gervaso, si diresse verso la propria stanza e la raggiunse, cosa piuttosto rara, senza incontrare scocciatori di qualunque tipo. Una volta da solo, chiuse a chiave la porta e finalmente dispiegò i fogli di carta aggrovigliati tra loro. Come immaginava, una lettera. Sicuramente minatoria. Per prima cosa Renzo cercò il nome del mittente, ma non lo trovò. L'autore della lettera si era firmato "il Custode". Perplesso, ma per niente sollevato, si apprestò a leggere. Renzo restò di sasso: non si trattava affatto di una lettera minatoria.

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Note:
(1) Questa bella frase proviene da un'opera ancora inedita del mio collega Jackborkh02 alias JBorkh02 e secondo le sue istruzioni l'ho attribuita a Vl'eats, anche scritto Vleats, protagonista di un altro suo libro.
(2) Si tratta del romanzo Diario di scuola di Daniel Pennac.

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