9. Storyteller

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Edward tornò a casa propria, ma non lo abbandonò il nauseante pensiero di ciò che stava per succedere, di lì a poco, in quella stanza dove Michael non voleva farlo entrare per nessun motivo, nonostante l'avesse già osservata molto bene.

Di solito, quando disponeva di serate libere come quella, le trascorreva a studiare: l'essere un assistente di ruolo non lo dispensava dal rischio di estromissione dal programma in qualsiasi momento. Ogni giro-visite, la mattina, era un interrogatorio su sintomatologie, cause, eziologie e terapie. Così, anche quella sera lo fece. Si infilò a letto col suo volumone sulle malattie neurologiche, computer accanto ed evidenziatore alla mano – per la quarta volta. Il manoscritto di Michael era appoggiato lì accanto, nell'altra metà di quel letto a due piazze troppo grande per una persona sola.

Non gli serviva, in realtà, tanto spazio nel materasso: quel pomeriggio aveva avuto dimostrazione di poter entrare in un letto standard persino con un'altra persona accanto, per quanto poco ingombrante. Ma aveva trovato l'appartamento già arredato, quando era andato ad abitare lì, compresa quella spalliera imbottita di nero lucido, in combinazione con le poltrone in pelle scura del salone, che a lui non piacevano ma delle quali non si curava, tanto le usava a malapena.

L'unico tratto distintivo di quella stanza, che la rendeva sua, erano proprio i libri di Medicina. Quelli a parte, non aveva letto molto altro negli ultimi sei anni. Eppure adesso non riusciva a distogliere lo sguardo dal manoscritto, quasi alimentato dalla speranza che gli permettesse di entrare in comunione con il cervello di chi l'aveva vergato, ciò che in fondo voleva da sempre.

Abbandonò per un attimo le patologie neoplastiche per dare un'occhiata al frontespizio. Riportava solo il titolo e l'inizio del primo capitolo, segnato col semplice numero cardinale, senza alcuna firma, senza rivendicazione d'autore: una banale stampa amatoriale, in caratteri fin troppo piccoli, che riportava qua e là le correzioni a matita di una grafia arrotondata. Non aveva idea di cosa trattasse la storia.

Iniziò a leggere: Era l'estate del 1934...

* * *

Quasi tutte le volte che Edward si apprestava alla lettura di un romanzo, dopo lo slancio iniziale la sua attenzione cominciava a venire meno e la mente vagabondava, mentre gli occhi continuavano a leggere e la voce nella sua testa a pronunciare parole inutilmente. Poi si metteva a contare le pagine che mancavano al termine del capitolo e iniziava a sentirsi annoiato, non abbastanza preso da quello che succedeva. Poteva dare una possibilità al secondo o terzo capitolo, ma infine abbandonava, perché non se ne sentiva abbastanza arricchito.

I triti classici che gli erano stati imposti durante il liceo li aveva letti controvoglia, non per propria volontà. Jane Austen gli aveva dato ribrezzo, Melville ugualmente. A Dostojeskij poteva riconoscere dell'ingegno, ma per lui era pesante: non aveva la pazienza di arrivare alla fine. L'unico che ricordava essergli piaciuto era Shakespeare; quello della Tempesta, non dell'Amleto. Era un drammaturgo, i soli dialoghi erano più facili da seguire. Leggeva lentamente e, se proprio doveva perdere tutto quel tempo, meglio farlo sugli articoli riguardanti i casi clinici che avrebbe incontrato in futuro.

Beh, evidentemente finora gli erano capitati i romanzi sbagliati, perché adesso non si rendeva conto di stare leggendo, privo della concezione dello scorrere del tempo o della posizione in cui si trovava. Ogni parola portava alla successiva, i protagonisti si facevano conoscere come se fossero stati suoi amici; i luoghi... ci si trovava dentro.

Alla fine del quinto capitolo sollevò gli occhi tirando finalmente un respiro, come se per tutto quel tempo l'avesse trattenuto. Erano trascorse quattro ore, da quando aveva iniziato, era passata la mezzanotte, ma voleva continuare. Non si trovava neanche a un quarto del racconto. Quello era solo l'inizio, eppure... cos'altro ancora sarebbe successo?

Il dottoreDove le storie prendono vita. Scoprilo ora