12. Un luogo da chiamare casa

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Jake lo portò nel proprio appartamento, un monolocale al terzo piano di un palazzo in Turk Street: quaranta metri quadrati, bagno compreso, unico ambiente separato dal resto.

«Dai, entra», lo invitò dopo aver spalancato la porta e acceso la luce sulla stanza un po' scabra, che lì per lì a Michael sembrò accogliente alla stregua di una reggia.

«Davvero posso?»

«Muoviti, prima che cambi idea», si sentì ribattere a mo' di provocazione, con un mezzo sorriso che, con il tempo, Michael avrebbe capito celare una certa dose di affetto.

Lui avanzò di qualche passo all'interno, lasciando cadere a terra lo zaino: era stata una faticaccia portarlo anche per quel poco cammino, ma non aveva voluto farsi aiutare ancora da Jake, sia per pudore che per gelosia dei propri averi.

Tutto l'arredamento consisteva in un armadio di legno chiaro, un tavolo di metallo con un paio di sedie e il letto a due piazze, senza spalliera, dalle lenzuola un po' sgualcite. Una corda di plastica era fissata per le estremità a due chiodi appuntati in alto sulle pareti, l'uno alla destra della finestra e l'altro a sinistra rispetto al portone, e su di essa era stato steso un telo azzurro a fungere da separatore tra il letto e l'angolo cucina dell'ambiente, di cui era possibile scorgere solo un lembo del piccolo e disordinato lavabo.

«Siediti, avanti», disse Jake mentre serrava uno dopo l'altro i tre chiavistelli. «Anche sul letto, se vuoi.»

«È che io... i miei vestiti... non sono per niente puliti.»

«Non farti questi problemi: neppure il letto è per niente pulito.»

Visto che le cose stavano così, non se lo fece ripetere due volte e si lasciò cadere sull'angolo in basso, chiudendo gli occhi per godersi la consistenza morbida e molleggiata a contatto coi glutei.

Jake sparì per un attimo oltre la tenda e ricomparve con in mano un bicchiere e una bottiglia di acqua naturale. Ne versò un po', e con un cucchiaino attinse direttamente dalla scatola dello zucchero che si trovava sul tavolo. Diede una mescolata veloce e gliela porse. «Bevi a piccoli sorsi.»

Michael obbedì, e dopo pochi minuti iniziò a sentirsi meglio. Il tremito lieve che gli era rimasto alle mani e al petto lentamente diminuiva e il suo respiro divenne più regolare.

«Jake, io... non so come ringraziarti», disse all'altro, che se ne stava seduto in silenzio su una sedia lì accanto. «Nessuno era mai stato così gentile con me, da quando...»

«Eri veramente un caso penoso», tagliò corto quello. «E adesso vedi di riposarti. Se vuoi farti una doccia, quello è il bagno, come avrai capito.»

«Posso farla davvero?»

«Sì, ma smettila di chiederlo!»

«Non vuoi andarci tu, prima?»

«Tu aspetti da più tempo di me.»

Vi si fiondò letteralmente: la semplice idea bastava per dargli le forze necessarie a rimettersi in piedi. Prese lo zaino e si chiuse nel bagno, la cui porta, notò, era dotata di una chiusura a chiave. Non la usò, tuttavia: si trovava nella casa di qualcun altro e ormai aveva deciso di fidarsi, a prescindere dalle paranoie. "Quel che sarà, sarà", si disse.

Sapeva benissimo che quel ragazzo poteva averlo portato a casa propria per approfittarsi di lui, derubarlo e magari fargli del male dopo, ma ormai era stanco. Era stanco di guardarsi freneticamente da tutti: quella vigilanza costante lo stava uccidendo. "Se proprio il destino vuole che perda tutto, allora così sia. Non ci riesco più, a combattere."

Intanto trovò una bella cabina-doccia, compresa di acqua calda, shampoo e bagnoschiuma profumati sulla mensola. Gliene rubò un po' e si strofinò i capelli massaggiandoli a lungo, cercando tuttavia di azionare il rubinetto il meno possibile. Per il risciacquo però vi restò sotto un minuto abbondante e gli parve di rinascere. Aveva sentito l'altro, nel frattempo, entrare nel bagno per un paio di secondi e dirgli qualcosa a proposito degli abiti, ma non aveva compreso bene.

Il dottoreKde žijí příběhy. Začni objevovat