24. Crisi d'identità

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Il cellulare aveva squillato almeno una ventina di volte, durante il breve tragitto e anche adesso che erano arrivati, ma Edward lo aveva lasciato gracchiare indisturbato, senza prendersi la briga di controllare di chi fosse la chiamata.

Chiese a Michael di potersi fare una doccia e, una volta uscito dal bagno, di prestargli qualcuno dei propri abiti, perché a suo dire anche quelli rimasti nello zaino portavano sopra un sentore d'ospedale. «Mi va bene pure roba che hai già indossato», buttò lì. "Potrebbe andarmi anche meglio", aggiunse nella propria testa.

Ma Michael gli rifilò una tuta fresca di bucato, tra le più larghe che possedeva, e lui se la infilò trovandola mille volte più comoda del camice medico, sebbene gli orli non gli arrivassero alle caviglie. L'altro gli offrì il proprio letto, se voleva stendersi, e lui accettò con gratitudine, buttandosi prono sopra la trapunta da mezza stagione, sgualcita ma morbidissima. Affondò il viso sul cuscino che aveva lo stesso profumo dei capelli di Michael e chiuse gli occhi per inebriarsi di quel momento di pace, senza tuttavia riuscire a serrare anche la mente allo stesso modo.

Appena abbassava le palpebre, al contrario, gli succedeva quel fatto spiacevole del primo anno, in cui rivedeva fialette e flaconi di medicine, flebo, carrelli e siringhe in ogni dove. Solo che adesso era mille volte più terribile, perché vedeva soltanto sangue. Quello, e insieme il viso di Melanie, i suoi capelli di poco più chiari; un orripilante calderone di rosso che gli dava la nausea. Sentiva ancora gridare la sua vocina terrorizzata: «Sto per morire?».

Si accorse di Michael che gli sedeva accanto, sul materasso, appoggiandogli una mano delicata sulla nuca. «Hai fame? Preparo qualcosa per colazione.»

Lui scosse la testa.

«Ma sembri debilitato... hai bisogno di energie.»

«Non voglio niente. Ho lo stomaco tutto contratto.»

«Vuoi un po' di gocce di quel calmante che mi hai dato?»

«Non parlarmi di farmaci per niente al mondo, te ne prego. Vorrei solo... solo riposare in pace. Riuscire a dormire almeno per mezz'ora, in modo da non dover pensare, da non avere davanti agli occhi...» Sospirò, alzando lo sguardo verso di lui, perché il solo guardarlo lo faceva sentire meglio. Specie se gli adagiava addosso quelle sue iridi verde giada, come in quel momento, carezzevoli come le ali di una farfalla. «Pensavo...» mormorò, «...io merito veramente il posto che ho in questo mondo?»

Michael abbassò gli occhi, accennando un sorriso di comprensione. «È quello che mi chiedo molto spesso anch'io, di me stesso. Ma, visto che ancora il coraggio di suicidarmi non l'ho trovato... non possiamo fare altro che andare avanti, non credi? Per quanto tu pensi di non avere più diritto a stare qui... nondimeno continui a respirare, e i tuoi occhi a vedere la luce, e capisci che non c'è un motivo per cui certe persone vanno e altre restano. Ma coloro che restano... sono quelli che dovranno stringere i denti e tenere duro.»

Edward gli avvolse un braccio attorno alla vita, riuscendo finalmente a chiudere gli occhi senza incubi.

Il cellulare squillò di nuovo, nella tasca esterna dello zaino buttato a terra come un vecchio e disprezzato cencio. Michael andò a recuperarlo per capire chi fosse che tanto disturbava. Il display riportava il nome di Gerard.

«Non voglio parlargli», dichiarò il suo amico. «Tanto so già quello che ha da dire.»

«Neanche saprà niente, ancora.»

«Sarebbe addirittura peggio.»

Michael rispettò la sua volontà e portò il cellulare con sé in cucina. Gli serviva qualche minuto per scaldarsi una tazza di latte coi cereali, perché lui al contrario moriva di fame. Ma il telefono continuava a squillare come un ossesso e alla fine, invece di spegnerlo, decise di rispondere. «Gerard, sono Michael.»

Il dottoreWhere stories live. Discover now