29. Disillusione

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Guidava, con il viso bagnato dalle lacrime, e altre ancora che continuavano a nascergli negli occhi. Non si era mai sentito, forse, più ferito che in quel momento, come se qualcuno gli stesse sadicamente scavando il cuore con un cucchiaio.

Provava una rabbia immensa, incontenibile. Per se stesso, per il disastro che era, per non aver saputo comunicare, in tutto quel tempo, la reale forma dei suoi sentimenti. Aveva sempre sbagliato tutto, nei rapporti con le persone, nel non riuscire a parlare chiaro, nel non averlo guardato negli occhi per dirgli quello che sentiva, prima che... prima che lui...

Singhiozzò e si terse la guancia col dorso della mano.

Avrebbe dovuto lasciarlo perdere molto prima. Prima che si giungesse a quel tracollo, prima che sorgessero rinfacci e recriminazioni. Si aspettava forse che lo capisse dai suoi gesti affettuosi, dai suoi gesti di amicizia, quando non era mai stato in grado di parlare chiaro neppure a se stesso?

Ma poteva vivere benissimo lo stesso. Non era forse capace di sganciarsi da quell'idea fissa?

C'era una figura in penombra, sul lato destro della strada, una delle tante, dall'aspetto filiforme e la sagoma di una capigliatura folta, che per un attimo gli ricordò Michael. Si fermò accanto ad essa senza neanche capirne bene la ragione, e abbassò il finestrino quando la figura trotterellò verso la sua auto; ma non ebbe il coraggio di voltarsi a guardarla, perché non era quello il viso che avrebbe voluto davanti.

«Ciao... io sono Larry, e tu?» sentì rivolgerglisi una voce giovane e suadente, ma estranea. E siccome lui non rispondeva, l'altro gli chiese: «Che dici, mi fai salire?».

Annuì, pur rimanendo con gli occhi bassi, a denti stretti e labbra serrate. «Sali.»

L'altro lo fece, con movimenti veloci, portando all'interno una ventata di profumo dolciastro e scadente. Edward ripartì lentamente, sulla strada poco trafficata.

«Wow... pare che io sia stato proprio fortunato, questa sera!» ridacchiò il tale Larry, l'intento evidente di rompere quel silenzio di tomba. «Allora, che cosa ti va di fare?»

Edward si rese conto di spaventarlo, con quell'aria cupa, come se non fosse già provato che il maniaco peggiore potesse nascondersi dietro le spoglie più raffinate. Non aveva neanche percorso un intero isolato, quando fermò l'auto di lato e si voltò a guardarlo, nel mezzo buio rischiarato dalla luce giallognola del lampione. Un viso ordinario come mille altri, regolare, ingentilito dal trucco troppo pesante, che lo scrutava perplesso, un po' a disagio.

«Ma che sto facendo...?» si chiese in un singulto, aggrappando le braccia al volante. «Tu non sei lui!»

«Chi...? Michael?»

Lo guardò basito. «Come fai a...?»

«Ti ho visto così tante volte entrare e uscire da casa sua... che credevo fossi il suo amante fisso.»

Edward scosse la testa e, vergognandosi a morte, non riuscì a impedire alle lacrime di inumidirgli di nuovo le ciglia, o di contrarsi ai muscoli del volto.

«Cavolo... non so davvero cosa darei per poterle suscitare io, delle reazioni simili, in un uomo come te!» Il tipo si lasciò andare contro lo schienale, tanto ormai aveva ben capito l'andazzo della serata. «È sempre stato un fuoriclasse, quello lì, fin da quando è arrivato a rubarci i clienti. Ti spiace se fumo?» Neanche stavolta ottenne risposta, quindi si accese direttamente una sigaretta, abbassando il vetro per metà, per buttare fuori le cicche.

«Io... ti chiedo scusa. Scusami davvero se ti ho fatto salire qui, se ti ho fatto perdere tempo. Non immagini come io mi senta in questo momento. Perché non è così... non è così che doveva essere! Non così che avrei voluto che fosse!» Edward sbatté la fronte contro il volante, sussultando un poco quando l'altro, impietosito, gli appoggiò una mano sulla spalla.

Il dottoreWhere stories live. Discover now