Capitolo 26

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26. Pain

Alex's povEnnesimo bar, stesso scenario

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Alex's pov
Ennesimo bar, stesso scenario. Ragazze che cercano di attirare l'attenzione dei ragazzi, quando un tempo erano i ragazzi ad avvicinarsi alle ragazze.

Non che mi lamentassi, non ero stupido, ma ormai era tutto così facile ed era diventato quasi noioso. Bastava dire "ciao" e loro cadevano ai tuoi piedi ed erano sempre pronte ad aprire le gambe.
Noioso.

Eppure, la mia sfida l'avevo trovata, solo che sentivo di aver perso, di essermi arreso troppo facilmente.
"Devi provarci ancora, penso che Katy sia molto più di ciò che mostra e sono certo che ci sia qualcosa che la tormenti." aveva detto Matt il giorno prima e io non potevo dargli torto. Matt sembrava convinto, come se lui avesse saputo qualcosa di cui io non ero a conoscenza.

Ti ricordo che sono andati a letto insieme.
Già, e che per colpa di quella troia della sua amica Katy mi odia.
Quella ragazza sembrava odiare tutti, ma allo stesso tempo riusciva a socializzare anche con i muri. Covava dentro di sé un odio verso il genere maschile inspiegabile.

Cioè, era vero che Matt se l'era scopata e che io avevo fatto un modo che mezza città lo venisse a sapere, ma ero certo che ci fosse qualcosa di più profondo, qualcosa che nessuno di noi aveva il diritto di sapere.
Katy era sola e non accettava l'aiuto di nessuno. Era così simile a me.
Chissà cosa mi nascondi, piccola Kitty.

Non dovevo arrendermi con lei, questo ormai l'avevo capito, ma era così difficile sentirsi respinti, sentir di aver perso tutto per una seconda volta. Se la prima volta non avevo potuto farci nulla, quella volta non sarebbe stato lo stesso, avrei lottato per lei perché volevo che si fidasse di me e stavolta non l'avrei delusa.

«Ciao» si avvicinò una bionda con un sorriso smagliante.
La osservai dalla testa ai piedi.
Aveva un fisico da dea, si vedeva che era frutto di un faticoso allenamento, aveva delle gambe slanciate ed era poco più bassa di me. Quella ragazza era proprio il mio tipo ed era praticamente l'opposto di Katy, ma di certo non mi lamentavo.

Dovevo combattere per Katy, era vero, ma questo non voleva dire che dovevo rinunciare a tutto il divertimento, no? E poi era da troppo tempo che il mio amichetto nei pantaloni non faceva attività fisica.

Katy's pov
«Andiamo» gli presi la mano e lo trascinai fino alla macchina. «Sono le undici e domani abbiamo scuola»
Potevo sembrare una di quelle perfettine del cazzo, ma la verità era che ci tenevo alle mie ore di sonno altrimenti il giorno dopo sarei sembrata uno zombie.

«Ti sfido» disse all'improvviso»
«Che tipo di sfida?» non accettavo mai le sfide che sapevo di perdere perché odiavo perdere.
«Se riesci a trascinarmi, alla fine vinco un premio»
«Assolutamente no» scossi la testa.
Ecco, quella era una di quelle sfide che sapevo di perdere.

«Sei una fifona» mi derise.
«Preferisco essere una fifona vincente che una coraggiosa perdente» incrociai le braccia al petto e alzai il mento, come se avessi appena detto qualcosa di super intelligente, quando in realtà la mia filosofia non era poi così giusta.

In psicologia questo atteggiamento viene definito "autosabotaggio", ovvero il fenomeno per cui siamo spesso proprio noi a boicottare inconsciamente il raggiungimento delle mete prefissate. Lo facciamo attraverso il corpo, con la "produzione" di sintomi fisici che ci impediscono di portare a compimento quanto (apparentemente) desideriamo, o attraverso un atteggiamento mentale, che inizia a insinuare dubbi e preoccupazioni persistenti.

«E se il premio me lo prendo lo stesso?» si avvicinò improvvisamente, tanto che mi spaventai.
«Solo se riesci a prendere prima me» cominciai a correre.

Mi stavo comportando da bambina, ma preferivo rimandare il più possibile. Sapevo che voleva baciarmi, non ero mica stupida, ma non riuscivo a capire se io lo volessi o meno.
La verità era che il problema non era lui, il problema era Alex.
Corsi il più possibile, ma dimenticai che Jackson giocava a basket, mentre io non mi alzavo nemmeno per cambiare canale alla tv. Diciamo che non si trattava proprio uno scontro alla pari e che nessuno avrebbe scommesso su di me.

«Presa» mi afferrò per i fianchi e mi fece girare.

«Lasciami» urlai tra le risate. Mi stavo divertendo, perché il pensiero di Alex doveva rovinare tutta la serenità e la spensieratezza di quel momento?
«Ora puoi prenderti il tuo premio, su» dichiarai sconfitta. Mi preparai a ricevere quel bacio e un a dire il vero un po' ci sperai perché magari avrei provato le stesse sensazioni che provo quando Alex mi era vicino.

Perché sì, volevo convincermi che ciò che mi interessava di Alex fosse solo il suo aspetto, la sua bellezza, per questo avevo deciso di accettare di uscire con Jackson. La realtà era che, sì, l'aspetto fisico era importante, ma ciò che mi attirava di Alex era anche il suo atteggiamento sempre così sicuro, come se niente potesse scalfirlo. Sapevo, però, che la sua era solo apparenza e che, come me, nascondesse qualcosa di profondo.

«Non lo voglio ora, aspetto che tu sia pronta» E quelle parole mi tormentarono tutta la notte perché capii di aver sbagliato a paragonare Alex a Jackson. Non avevano nulla in comune quei due.
E purtroppo, quello non fu l'unico pensiero che mi tormentò quella notte.

*

«Sì, papà sto bene, solo che ho un po' di febbre»
Bugia, bugia, bugia.

«Sei sicura che non vuoi che torni? Ci metto un attimo» mio padre era spaventato dalle malattie, anche se avevo un semplice raffreddore si allarmava ed era una cosa adorabile, anche se certe volte fastidiosa.

«Sì, perché l'Iraq è dietro l'angolo, vero?» risi di lui.

«Prendi qualche medicina e chiamami se peggiori, okay?» ignorò il mio commento sarcastico.
«Certo papà» per poco non sbuffai.
«E chiama Mason, sono più tranquillo se stai con lui»
«Certo papà» ripetei.

«Mi prendi in giro?» chiese lui.
«Certo papà» provai a non ridere, ma fu impossibile.
«Non ti mando a fanculo solo perché sei mia figlia» il solito.

«Ti voglio tanto bene anche io» sorrisi.
«Io di più, piccola mia. Ti abbraccio forte forte forte» addolcì il tono come se stesse parlando a una bambina.
«Anche io» sussurrai e una lacrima mi rigò il viso.

Mi mancava e in quel momento più che mai avevo bisogno di lui. Avrei tanto voluto raccontargli che mia madre l'aveva fatto davvero, era tornata con quell'essere.

Non meritava nemmeno di essere chiamato uomo perché non lo era. Un uomo non avrebbe mai trattato in quel modo una donna, non avrebbe mai fatto la metà delle cose che aveva osato fare lui. Non avrebbe mai cercato di superare quel limite. Un uomo non deve essere considerato tale se viola la libertà altrui.

Cominciai a riordinare la stanza, così per tenere occupata la mente, ma era praticamente impossibile far tacere i pensieri. Come si faceva a dimenticare il dolore e andare avanti lasciandosi tutto alle spalle? Io non riuscivo a farlo.
Desideravo tanto poter dire di essere cambiata, che tutto ciò che mi era successo non aveva avuto effetti sulla persona che ero, ma sarebbe stato tutto una grande bugia.

Erano più di cinque anni che riuscivo a tenere a bada il dolore e all'improvviso, per colpa di quella stupida telefonata, ero stata inondata da quella sensazione che ti attanaglia l'anima e ti impedisce di vivere la tua vita in tranquillità, come dovrebbe essere per ogni ragazza della mia età.

In realtà io non ero come tutte le altre ragazze e non lo sarei mai potuta essere e dio, quanto invidiavo le mie coetanee.

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