Trent'anni

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Dopo trenta anni esatti, oggi esce di prigione. Mia sorella non ne ha voluto sapere niente. Non mi ha nemmeno permesso di accennarglielo.

"È una cosa morta e lontana. Non mi riguarda."

A me faceva tristezza che ne parlasse in questo modo, ma era tristezza per lei, l'unica che potesse meritare questo sentimento. Conoscendola sapevo bene che insistere non sarebbe servito a nulla. E, dopotutto, non sarebbe nemmeno stato giusto.

Io sono qui che guardo il portone. Mi immagino una cosa, poi un'altra. Poi non immagino niente. Comincia anche a piovere.

Un uomo mi passa a fianco. Anzi: non mi passa a fianco, si ferma proprio a un passo da me. Non è lui. Non è sicuramente lui. Mi dice soltanto:

"Posso offrirle un caffè?"

Prima che io possa rifiutare, aggiunge:

"So cosa sta facendo. So chi sta aspettando."

Forse ho guardato troppo intensamente verso quel portone di ferro. Oppure non so per quale ragione questo sconosciuto dica di saperne così tanto sul mio conto. Non so cosa fare. L'uomo si presenta:

"Piacere, Giacobetti. Lavoro là dentro, sa? L'ho riconosciuta dalla foto."

Solo a quel punto lo guardo negli occhi. Che sono piccoli, dentro una faccia larga e grassoccia. I capelli hanno una piega come se un berretto li calcasse ogni giorno lungo un cerchio che gira tutto attorno. Sembrano unti.

Non ho la più pallida idea di quale sia la foto di cui sta parlando. Così mi ritrovo, per la curiosità, ad aver accettato. Mi ritrovo seduta in un bar poco lontano.

"L'assassino della macchina, vero?"

Se non mi fossi documentata, qualche anno fa', sui giornali dell'epoca, ora non avrei colto il riferimento. I giornali lo avevano chiamato a quel modo non perché avesse usato una macchina per l'omicidio, ma perché subito dopo, s'era messo in macchina e non s'era più fermato. Tre giorni ci avevano messo a rintracciarlo.

Non correva. Scappava, certo. Ma non si illudeva di farla franca. Sapeva benissimo che, presto o tardi, l'avrebbero preso. Voleva solo avere più tempo, come uno che stia affogando e darebbe qualunque cosa per un'altra boccata d'aria.

Io ho sempre avuto una grandissima curiosità verso questi tre giorni. Dove sia stato, cosa abbia fatto. Sono cresciuta insieme a questo interrogativo. È come se quei giorni avessero dentro un segreto ormai impossibile da decifrare. Una verità che non deve importare più a nessuno. Nemmeno a lui.

"C'è una cosa che devo dirle. Una cosa che da tanto tempo credo di dover dire a qualcuno."

Giacobetti all'improvviso mi si rivolge direttamente. Vedo le sue mani che hanno un leggero tremito a fianco alle tazzine di caffè. Sono mani grassocce. Hanno la pelle giallastra di chi esce raramente all'aperto.

Col dito si gratta la barba di due giorni. Sembra esitante, ma alla fine, quando sta finalmente per decidersi, sentiamo la porta del bar aprirsi di nuovo. Il secondino scatta sul suo posto come se fosse stato sorpreso in flagrante. Nel bar entra una sua conoscenza, forse un collega. Si stringono la mano. Per un attimo mi guarda come se volesse presentarmi ma non saprebbe come fare, dato che non mi ha chiesto niente e io non gli ho mai detto come mi chiamo. Ci conosciamo, se così si può dire, solo per via di una fotografia a cui lui ha accennato e di cui io non so ancora niente.

Il nuovo arrivato non è altrettanto silenzioso. Poco gli importa che ci sia anch'io. Ha molte cose da dire. Parla veloce, a mitraglietta. Non sta zitto un attimo. Non gli importa nemmeno che Giacobetti risponda a monosillabi. Non si accorge di quanto sia in imbarazzo.

Io sono sollevata che non abbia fatto in tempo a dirmi nulla. Non avevo nessuna voglia che qualcuno mi mettesse in testa delle parole che, sicuramente, ci avrebbero messo moltissimo tempo prima di uscire. Non provo nessuna curiosità di sapere quale peso mi avrebbe voluto dare. Persino la fotografia da cui mi avrebbe riconosciuto ha perso per me ogni interesse. Dopo qualche minuto riesco a svincolarmi, a sgattaiolare fuori.

A quel punto si è fatto buio e io torno a casa.

Mi viene in mente che di lui ho un solo ricordo, di quando ero bambina. Mia sorella, più piccola, non ha nemmeno quello. Mi ricordo che mia madre lo chiamava al telefono, senza sosta. Per tutta una giornata l'ha chiamato. E a me sembra di ricordare che una volta, una volta soltanto, lui abbia risposto. A me sembra di ricordare la sua voce. Sembrava spaventato.

Sembrava la voce di un papà.

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